In ogni comunità politica, fin dalla antichità, sono presenti
gruppi di uomini che, uniti da comuni interessi, si adoperano, ricorrendo
a forme di pressione, per ottenere da parte del potere politico l’adozione
di particolari provvedimenti o di complesse linee politiche che a quegli
interessi siano confacenti. Correntemente tale gruppo di persone viene definito,
indifferentemente, “gruppo di interesse” o “gruppo di
pressione”.
Il termine “gruppo di pressione” ha, nella lingua italiana,
un sinonimo acquisito dalla tradizione anglosassone: “lobby”.
Lobby è parola di derivazione latina medioevale (da lobia = portico).
Secondo Adrian Room questa parola venne usata per la prima volta da Thomas
Becon in The relikes of Rome nel 1553; venne poi ripresa nel 1593 da William
Shakespeare in Henry VI - Parte seconda, con il significato di “passaggio”,
“corridoio”. Fu nel secolo XVII che il termine lobby venne ad
indicare, nella House of Commons, la grande anticamera in cui i membri del
parlamento usavano votare durante una division. Successivamente il termine
venne attribuito a quella zona del Parlamento in cui i rappresentanti dei
gruppi di pressione cercavano di contattare i membri del parlamento stesso.
Per indicare questi rappresentanti e l’attività da essi esercitata,
si iniziò, nel Diciannovesimo secolo, a far uso dei termini lobbyist
e lobbying. Estensivamente lobby indica poi il gruppo da essi rappresentato.
Il termine viene usato oggi anche per indicare un certo numero di gruppi,
organizzazioni, individui, legati tra loro da un comune interesse ma non
necessariamente dal senso di appartenenza al gruppo. E, per finire, esso
è stato adottato dal linguaggio giornalistico, anche per indicare
una manifestazione popolare – generalmente composta da un corteo,
comizi, uso di cartelli e striscioni – che ha lo scopo di far pressione
a supporto di (o contro) un preciso provvedimento legislativo. Tutti gli
usi non letterali del termine lobby, escluso quest’ultimo, sono entrati
a far parte della lingua italiana o, per lo meno, del linguaggio giornalistico
italiano. Abbiamo quindi: “lobby”, “lobbies”, “lobbying”,
“lobbista” e “lobbismo”.
Va constatato che al termine lobby vengono generalmente attribuite, in Italia,
varie connotazioni negative. Sotto la voce, in alcuni dizionari della lingua
italiana si legge:
- «gruppo di potere occulto»;
- «gruppo di potere economico-finanziario che agisce occultamente
influenzando le decisioni politiche»;
- «gruppo di interesse che, mediante pressioni anche illecite su uomini
politici, ottiene provvedimenti a proprio favore»;
- «gruppo di persone che, sebbene estranee al potere politico, hanno
la capacità di influenzarne la scelte, soprattutto in materia economico
finanziaria».
Il ruolo totalizzante dei partiti politici, nelle dinamiche relazionali
con le istituzioni nei primi quarant’anni di vita repubblicana, rendeva
superflua, nella società politica italiana, la necessità di
una istituzionalizzazione delle pratiche di lobbying.
È tempo di istituzionalizzare
La crisi
dei partiti di massa però segna il punto di svolta per avviare nel
paese una riflessione più serena sulle prospettive di un’istituzionalizzazione
dell’attività relazionale dei gruppi di interesse nel contesto
nazionale. Non è un caso che a partire dagli anni Novanta si è
assistito al proliferare del dibattito – ispirato anche dall’osservazione
delle pratiche sviluppate nel contesto comunitario – sulle attività
lobbistiche. Il lobbying era ritenuto un fenomeno di per sé necessario
al corretto funzionamento di un sistema politico rappresentativo democratico.
Ma, allo stesso tempo – così come emergeva dalla relazione
censis: Elementi di riflessione socio-politica del 1990 – si riteneva
necessario porre dei rimedi a certe forme “occulte” di corruzione
e pressione illecita che a volte accompagnavano azioni di lobbying portate
sia attraverso le direzioni dei partiti sia attraverso altri canali.
L’eclissi del partito-Chiesa, dove la struttura, sapientemente assortita,
agiva – impropriamente e a volte al limite della liceità –
da filtro a tutta una serie di istanze da veicolare verso i decisori, ha
privato i politici di uno strumento strategico nella gestione dei rapporti
con gli interessi costituiti. La metamorfosi dei partiti all’alba
della seconda repubblica, in un contesto politico trasformato, porta ad
abbandonare le dimensioni “burocratiche” dell’organizzazione
interna per strutture più snelle e “movimentiste”. Ai
partiti (e per estensione alle istituzioni) viene così a mancare
quell’insieme di nozioni tecnico-specialistiche, che la struttura
capillare garantiva, necessarie per giungere ad una decisione positiva e
significativa, nozioni che al contrario le lobbies sono in grado di fornire.
Ancora oggi, tuttavia, molti politici e giornalisti italiani considerano
il lobbying, portato attraverso canali diversi da quelli partitici, come
una attività illecita, spesso accompagnata da corruzione, corporativismo,
manipolazione delle informazioni, clientelismo, insomma come una attività
che «disturba la serena autonomia del giudizio del legislatore, la
neutralità dell’amministratore pubblico». Questa concezione
deriva dalla opinione diffusa secondo cui il processo decisionale, sia legislativo
che amministrativo, deve, in una democrazia rappresentativa, essere monopolizzato
dai politici di professione e quindi dai partiti. Gli interessi che non
passano attraverso questi canali verrebbero quindi ritenuti emanazione di
centri occulti, tradendo una evidente miopia sulla struttura del sistema
di relazioni diffuse che caratterizza la società contemporanea.
Al riguardo è sintomatico che il parlamento italiano da trent’anni
(il primo progetto di legge risale infatti al 1976) tenti, senza successo,
di regolamentare le attività di rappresentanza di interessi particolari
presso i centri decisionali pubblici e istituzionali. Con uno sguardo cursore
alle proposte di legge che sono state prodotte sull’argomento viene
in evidenza la diversità di approccio al tema. Da un lato si rileva
un indirizzo più favorevole e tollerante, teso al riconoscimento
dell’attività di pubbliche relazioni intesa come attività
sostanzialmente positiva, mettendo in ombra l’aspetto di pressione
sui decisori; dall’altro, emerge un orientamento preoccupato della
regolamentazione e del controllo di un fenomeno considerato in modo negativo.
L’unico elemento comune si individua in quello che il professor Piero
Trupia, in un suo libro del 1989, ha definito «l’abbinamento
della regolamentazione sulla lobby alla disciplina della professione di
pubbliche relazioni e la poco meditata ispirazione alla legislazione statunitense,
trascurando la diversità del contesto istituzionale».
Nella XIV legislatura, i lavori della I Commissione Affari Costituzionali
della Camera dei Deputati hanno avuto a oggetto l’unificazione di
tre progetti di legge disciplinanti l’attività di relazione
istituzionale, superando per la prima volta l’esame preliminare. Il
tempo non è pero stato sufficiente a completare l’iter di approvazione,
ma la vicenda parlamentare degli ultimi progetti sul tema è sintomatica
di un diverso – seppur ancora parziale e minoritario – atteggiamento
della classe politica del nostro paese.
Il sentiero da percorrere si prefigura comunque ostile, causa soprattutto
un pregiudizio culturale nei confronti delle attività di lobbying.
Se ne trova traccia nelle premesse dell’ultima proposta di legge presentata
al Senato nel luglio 2005, dove si evidenziano «tempi ormai maturi
per introdurre anche nel nostro ordinamento il principio che rappresentare
ufficialmente presso le istituzioni interessi dichiaratamente di parte secondo
criteri di trasparenza validi per tutti e di dialogo codificato è
un’attività lecita».
Se considerare necessaria una regolazione per un’attività che
di fatto è entrata nella prassi delle relazioni pubbliche –
non a caso viene usato il termine “ufficialmente” – è
elemento positivo che in primis ne certifica di fatto l’esistenza,
meraviglia però la volontà di considerarla un’attività
“lecita”. Nonostante l’apprezzamento per l’ulteriore
tentativo di dare rilievo normativo al lobbying, ciò che si contesta
– e qui viene tradito un certo pregiudizio culturale – è
il tentativo di condurre nell’alveo della legalità ciò
che prima non vi era. Come se esercitare il lobbying fosse una pratica illecita.
Quando invece illecito può essere solo considerato un comportamento
così definito dall’ordinamento.
Semplicemente il lobbying per l’ordinamento italiano a oggi non esiste.
Ma come può essere vero? In un rapporto del marzo 2006 del cipi (Centro
italiano di prospettiva internazionale) di Bruxelles, su “Le lobby
d’Italia a Bruxelles” emerge come l’Italia – attraverso
le Regioni, le autonomie locali, i grandi gruppi industriali, le associazioni
di settore, i gruppi finanziari e assicurativi, le università, la
stampa e le ong – si adopera in attività di lobbying, testimoniando
che, dove regolata, l’attività lobbistica italiana è
sinonimo di grande dinamicità. Un segnale evidente di una società
preparata a metabolizzare il lobbying viene dal mondo delle università.
Sono ormai diversi gli atenei italiani che offrono corsi di specializzazione
post-universitaria in attività di lobbying e relazioni istituzionali,
sintomo chiaro che il paese reale si sta, da tempo, adattando a quella che
è una naturale esigenza di tutte le società politiche contemporanee:
l’attività di relazione.
Può quindi apparire normale interrogarsi sul perché di una
mancata regolamentazione nazionale di questa attività. Da un lato,
chi di fatto oggi è titolare di un interesse da tutelare è
al tempo stesso capace, perché dotato di strutture adeguate, di esercitare
direttamente le pressioni a tutela di un proprio tornaconto. Si pensi ad
esempio alle grandi imprese o alle importanti associazioni di categoria
e alle grandi confederazioni sindacali che, stringendo di fatto una relazione
diretta con il mondo politico, sono efficienti nel tutelare gli interessi
rappresentati. Certamente l’assenza di una previsione normativa non
va ad inficiare le capacità di influenza di questi grandi players
del panorama delle relazioni pubbliche. Appare però lecito domandarsi
se una mancata regolamentazione non sia funzionale al ruolo stesso di questi
grandi giocatori, se oggi l’esigenza di istituzionalizzare il lobbying
non rappresenti un tipico caso di (paradosso eclatante!) interesse recessivo
di fronte a situazioni dotate di maggiore tutela e forza contrattuale. Poiché
è sicuramente più vantaggioso operare in un mercato –
oligopolista per carenza di partecipanti – che accettare le regole
della concorrenza.
Individua forse la vera chiave di lettura Massimo Micucci – uno dei
soci fondatori di Reti SpA, primo vero esempio di lobbying italiano impostato
su standard di ispirazione anglosassone – quando, in un articolo pubblicato
dal quotidiano Il Riformista nel maggio 2004, sostiene che il lobbying è
funzionale al rafforzamento della democrazia. Ciò acquista maggiore
valenza considerando la trasformazione del panorama politico italiano intervenuta
negli ultimi dieci anni con il radicamento della logica bipolare tra centrodestra
e centrosinistra. Infatti, l’allineamento alle società politiche
occidentali più evolute insieme a una sostanziale stabilità
delle istituzioni e l’esperienza (purtroppo interrotta) del sistema
maggioritario uninominale, hanno introdotto nella realtà italiana
la convinzione che ogni interesse, a partire dal più debole, potesse
avere quanto meno una rappresentanza territoriale, interpretata spesso in
maniera trasversale dai politici. Ma se la territorialità individua
uno dei caratteri di un interesse costituito, esso rappresenta solo un aspetto
della rilevanza di un interesse particolare che non dovrebbe – in
linea di massima – per ragioni di opportunità essere veicolato
dal soggetto politico, il quale per definizione opera a tutela dell’interesse
generale. Interesse particolare e politica scoprono – o meglio, dovrebbero
scoprire – nelle attività di lobbying il punto di connessione,
dove il soggetto politico viene informato sulle dinamiche, sulla complessità
e sui problemi a cui certe tematiche sono sensibili. Di contro, il detentore
di un interesse esclusivo prende coscienza delle ragioni della politica
e delle difficoltà del governo della cosa pubblica, viene informato
delle ragioni dell’interesse generale e di quelle opposte o diverse
dalle proprie «in un percorso di responsabilità, di dialogo
e di trasparenza».
Continuare a far esistere il lobbying in forma impropria o clandestina rischia
quindi di confonderlo e assimilarlo a pratiche illecite, ai limiti della
corruzione. Esso dovrebbe invece essere considerato alla stregua di un atto
democratico e, come tale, va incoraggiato. Lungi dall’essere una scienza
a parte, il lobbying presuppone un approccio integrato che coniughi capacità
comunicative e di relazione adatte alle istituzioni pubbliche, una cognizione
esatta dei diversi processi decisionali. Una buona pratica di lobbying richiede
capacità in aree diverse quali sociologia, politica, diritto, economia
e storia.
Puntare su trasparenza e competenza
Il lobbying
non è affatto sinonimo di corruzione, connivenza o favoritismo (attività,
queste, formalmente condannate dalle istituzioni in cui è regolamentato).
Al contrario, si tratta di un dialogo mutuamente proficuo che giova sia
alle istituzioni, sia agli interessi dei gruppi esterni, è un indicatore
di dinamicità della società politica, nella quale interessi
costituiti hanno l’occasione di far presente al legislatore il proprio
caso, allo scopo di informarlo meglio in relazione alle conseguenze delle
azioni da lui proposte. Grazie all’elevato contenuto tecnico, competente,
rapido e sintetico del loro approccio tipico, le lobbies hanno la capacità
di portare sul tavolo del governo delle istanze minoritarie, ciò
che l’opposizione in parlamento non sarebbe in grado di fare (o, in
certi casi, non ha nemmeno interesse a fare). Infatti i partiti politici
e il parlamento hanno un approccio necessariamente più lento, articolato
e ideologizzato. Inoltre una libera attività dei gruppi di interesse
contribuisce a controbilanciare la forza, a volte eccessiva, di quei gruppi
di pressione che in un sistema caratterizzato da spinte corporative avrebbero
invece totale libertà d’azione. È necessario però
per la democrazia che il lobbying sia praticato alla luce del sole, così
che gli elettori possano rendersi conto di quali pressioni sono esercitate
su coloro che scrivono le loro leggi, e possano di conseguenza giudicare
autonomamente il peso e la rilevanza di tali influenze.
Il paradigma di riferimento a sostegno del lobbying è, senza dubbio,
storicamente quello statunitense; più di recente si aggiunge –
visto anche il diretto coinvolgimento di interessi nazionali – quello
europeo. Le evoluzioni del caso Abramoff, dal nome del più famoso
lobbista americano travolto da un caso di corruzione, diranno se si tratta
di un caso isolato, e tutto sommato fisiologico, oppure se il sistema delle
relazioni istituzionali negli usa necessita di un ulteriore ripensamento
dopo quello del 1995 che con il Lobbying Disclosure Act abrogò il
Federal Regulation of Lobbying Act del 1946. Il legislatore americano d’altro
canto si è sempre preoccupato di contrastare le influenze occulte
sui processi decisionali, implementando i meccanismi di trasparenza e sacrificando
un approccio etico-deontologico. Al contrario di quanto avviene nell’Unione
Europea dove, a oggi, non esiste una legge specifica sul lobbying, ma soltanto
codici di condotta e testimonianze di autodisciplina da parte dei gruppi
di interesse. Ma anche nell’Unione Europea si avverte la necessità
di tutelare maggiormente i meccanismi di trasparenza. Infatti, nel novembre
2005 la Commissione Europea ha inaugurato la European Transparency Initiative,
una proposta utile a sviluppare un dibattito per «aumentare l’apertura
e l’accessibilità delle istituzioni europee, per far crescere
la consapevolezza sull’uso del budget europeo, e per rendere le istituzioni
dell’Unione maggiormente responsabili di fronte al pubblico».
Argomento determinante è quello della trasparenza nel lobbying. La
trasparenza nel settore è considerata spesso insufficiente soprattutto
rapportata alle conseguenze e all’influenza enorme che lobbisti e
gruppi di interesse con sede a Bruxelles hanno sulla legislazione europea
– specialmente nelle parti più tecniche – e sulla gestione
del budget. Quello della regolamentazione del lobbying è diventato
quindi un aspetto fondamentale. Se l’etica del lobbista è funzionale
a un certo grado di trasparenza della propria attività, sta alle
istituzioni europee il compito di tutelare la trasparenza nelle pratiche
di lobbying. Al momento attuale infatti la regolamentazione dell’attività
di lobbying nelle istituzioni europee è imperfetta e frammentata.
I registri delle organizzazioni di lobbisti sono volontari e non forniscono
particolari informazioni sugli interessi rappresentati o sui finanziamenti
ricevuti. Stessa considerazione vale per i codici di condotta volontari,
non universalmente accettati e spesso lacunosi.
Se da un lato in sede europea c’è chi preme affinché
la Commissione imponga i codici di autoregolamentazione a chi fa lobbying,
altri reclamano una normativa rigorosa che obblighi i lobbisti alla registrazione,
a dichiarare la provenienza delle proprie disponibilità finanziarie
e che vigili sui funzionari europei registrando – a esempio –
i colloqui con i lobbisti o prevedendo limitazioni al passaggio dal ruolo
di funzionario a quello di lobbista.
L’esperienza americana e quella europea possono rappresentare un riferimento
concreto se, finalmente, in Italia si decidesse di dar seguito a un’istanza
da troppo tempo disattesa. Esiste ormai una consapevolezza diffusa sul ruolo
che il lobbying può giocare come supporto al decision maker e non
manca, d’altronde, l’offerta formativa utile a fornire il necessario
serbatoio di professionalità a un settore che potrebbe risultare
strategico nel futuro del paese. Resta solo da vedere se il legislatore
sarà capace di dare giusto rilievo alle attività di lobbying.
Sarà pero necessario che la imprescindibile trasparenza nel settore
– requisito primario non derogabile – non sia il risultato di
una iper regolamentazione che rischi di soffocare sul nascere le prospettive
del lobbying in Italia. Non è irrilevante il dato per cui nella sola
Washington il business del lobbying è stimato in due miliardi di
dollari l’anno. Logica conseguenza è che il lobbying potrebbe
avere nel nostro paese anche – almeno in prospettiva – un importante
impatto economico, con i benefici in termini di indotto che un’economia
di mercato ben conosce. Una regolamentazione del lobbying rappresenterebbe,
da diversi punti di vista, più un’opportunità che un
rischio per il sistema istituzionale ed economico.
Giuseppe Lanzilotta, esperto di Pubblica amministrazione e di relazioni istituzionali. Nella passata legislatura è stato consigliere del ministro per la Funzione Pubblica, attualmente collabora con il Servizio Studi dell’Aran.
(c)
Ideazione.com (2006)
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