Oltre il pregiudizio
di Giuseppe Lanzilotta
Ideazione di settembre-ottobre 2006

In ogni comunità politica, fin dalla antichità, sono presenti gruppi di uomini che, uniti da comuni interessi, si adoperano, ricorrendo a forme di pressione, per ottenere da parte del potere politico l’adozione di particolari provvedimenti o di complesse linee politiche che a quegli interessi siano confacenti. Correntemente tale gruppo di persone viene definito, indifferentemente, “gruppo di interesse” o “gruppo di pressione”.
Il termine “gruppo di pressione” ha, nella lingua italiana, un sinonimo acquisito dalla tradizione anglosassone: “lobby”. Lobby è parola di derivazione latina medioevale (da lobia = portico). Secondo Adrian Room questa parola venne usata per la prima volta da Thomas Becon in The relikes of Rome nel 1553; venne poi ripresa nel 1593 da William Shakespeare in Henry VI - Parte seconda, con il significato di “passaggio”, “corridoio”. Fu nel secolo XVII che il termine lobby venne ad indicare, nella House of Commons, la grande anticamera in cui i membri del parlamento usavano votare durante una division. Successivamente il termine venne attribuito a quella zona del Parlamento in cui i rappresentanti dei gruppi di pressione cercavano di contattare i membri del parlamento stesso. Per indicare questi rappresentanti e l’attività da essi esercitata, si iniziò, nel Diciannovesimo secolo, a far uso dei termini lobbyist e lobbying. Estensivamente lobby indica poi il gruppo da essi rappresentato. Il termine viene usato oggi anche per indicare un certo numero di gruppi, organizzazioni, individui, legati tra loro da un comune interesse ma non necessariamente dal senso di appartenenza al gruppo. E, per finire, esso è stato adottato dal linguaggio giornalistico, anche per indicare una manifestazione popolare – generalmente composta da un corteo, comizi, uso di cartelli e striscioni – che ha lo scopo di far pressione a supporto di (o contro) un preciso provvedimento legislativo. Tutti gli usi non letterali del termine lobby, escluso quest’ultimo, sono entrati a far parte della lingua italiana o, per lo meno, del linguaggio giornalistico italiano. Abbiamo quindi: “lobby”, “lobbies”, “lobbying”, “lobbista” e “lobbismo”.
Va constatato che al termine lobby vengono generalmente attribuite, in Italia, varie connotazioni negative. Sotto la voce, in alcuni dizionari della lingua italiana si legge:
- «gruppo di potere occulto»;
- «gruppo di potere economico-finanziario che agisce occultamente influenzando le decisioni politiche»;
- «gruppo di interesse che, mediante pressioni anche illecite su uomini politici, ottiene provvedimenti a proprio favore»;
- «gruppo di persone che, sebbene estranee al potere politico, hanno la capacità di influenzarne la scelte, soprattutto in materia economico finanziaria».
Il ruolo totalizzante dei partiti politici, nelle dinamiche relazionali con le istituzioni nei primi quarant’anni di vita repubblicana, rendeva superflua, nella società politica italiana, la necessità di una istituzionalizzazione delle pratiche di lobbying.

È tempo di istituzionalizzare
La crisi dei partiti di massa però segna il punto di svolta per avviare nel paese una riflessione più serena sulle prospettive di un’istituzionalizzazione dell’attività relazionale dei gruppi di interesse nel contesto nazionale. Non è un caso che a partire dagli anni Novanta si è assistito al proliferare del dibattito – ispirato anche dall’osservazione delle pratiche sviluppate nel contesto comunitario – sulle attività lobbistiche. Il lobbying era ritenuto un fenomeno di per sé necessario al corretto funzionamento di un sistema politico rappresentativo democratico. Ma, allo stesso tempo – così come emergeva dalla relazione censis: Elementi di riflessione socio-politica del 1990 – si riteneva necessario porre dei rimedi a certe forme “occulte” di corruzione e pressione illecita che a volte accompagnavano azioni di lobbying portate sia attraverso le direzioni dei partiti sia attraverso altri canali.
L’eclissi del partito-Chiesa, dove la struttura, sapientemente assortita, agiva – impropriamente e a volte al limite della liceità – da filtro a tutta una serie di istanze da veicolare verso i decisori, ha privato i politici di uno strumento strategico nella gestione dei rapporti con gli interessi costituiti. La metamorfosi dei partiti all’alba della seconda repubblica, in un contesto politico trasformato, porta ad abbandonare le dimensioni “burocratiche” dell’organizzazione interna per strutture più snelle e “movimentiste”. Ai partiti (e per estensione alle istituzioni) viene così a mancare quell’insieme di nozioni tecnico-specialistiche, che la struttura capillare garantiva, necessarie per giungere ad una decisione positiva e significativa, nozioni che al contrario le lobbies sono in grado di fornire.
Ancora oggi, tuttavia, molti politici e giornalisti italiani considerano il lobbying, portato attraverso canali diversi da quelli partitici, come una attività illecita, spesso accompagnata da corruzione, corporativismo, manipolazione delle informazioni, clientelismo, insomma come una attività che «disturba la serena autonomia del giudizio del legislatore, la neutralità dell’amministratore pubblico». Questa concezione deriva dalla opinione diffusa secondo cui il processo decisionale, sia legislativo che amministrativo, deve, in una democrazia rappresentativa, essere monopolizzato dai politici di professione e quindi dai partiti. Gli interessi che non passano attraverso questi canali verrebbero quindi ritenuti emanazione di centri occulti, tradendo una evidente miopia sulla struttura del sistema di relazioni diffuse che caratterizza la società contemporanea.
Al riguardo è sintomatico che il parlamento italiano da trent’anni (il primo progetto di legge risale infatti al 1976) tenti, senza successo, di regolamentare le attività di rappresentanza di interessi particolari presso i centri decisionali pubblici e istituzionali. Con uno sguardo cursore alle proposte di legge che sono state prodotte sull’argomento viene in evidenza la diversità di approccio al tema. Da un lato si rileva un indirizzo più favorevole e tollerante, teso al riconoscimento dell’attività di pubbliche relazioni intesa come attività sostanzialmente positiva, mettendo in ombra l’aspetto di pressione sui decisori; dall’altro, emerge un orientamento preoccupato della regolamentazione e del controllo di un fenomeno considerato in modo negativo. L’unico elemento comune si individua in quello che il professor Piero Trupia, in un suo libro del 1989, ha definito «l’abbinamento della regolamentazione sulla lobby alla disciplina della professione di pubbliche relazioni e la poco meditata ispirazione alla legislazione statunitense, trascurando la diversità del contesto istituzionale».
Nella XIV legislatura, i lavori della I Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati hanno avuto a oggetto l’unificazione di tre progetti di legge disciplinanti l’attività di relazione istituzionale, superando per la prima volta l’esame preliminare. Il tempo non è pero stato sufficiente a completare l’iter di approvazione, ma la vicenda parlamentare degli ultimi progetti sul tema è sintomatica di un diverso – seppur ancora parziale e minoritario – atteggiamento della classe politica del nostro paese.
Il sentiero da percorrere si prefigura comunque ostile, causa soprattutto un pregiudizio culturale nei confronti delle attività di lobbying. Se ne trova traccia nelle premesse dell’ultima proposta di legge presentata al Senato nel luglio 2005, dove si evidenziano «tempi ormai maturi per introdurre anche nel nostro ordinamento il principio che rappresentare ufficialmente presso le istituzioni interessi dichiaratamente di parte secondo criteri di trasparenza validi per tutti e di dialogo codificato è un’attività lecita».
Se considerare necessaria una regolazione per un’attività che di fatto è entrata nella prassi delle relazioni pubbliche – non a caso viene usato il termine “ufficialmente” – è elemento positivo che in primis ne certifica di fatto l’esistenza, meraviglia però la volontà di considerarla un’attività “lecita”. Nonostante l’apprezzamento per l’ulteriore tentativo di dare rilievo normativo al lobbying, ciò che si contesta – e qui viene tradito un certo pregiudizio culturale – è il tentativo di condurre nell’alveo della legalità ciò che prima non vi era. Come se esercitare il lobbying fosse una pratica illecita. Quando invece illecito può essere solo considerato un comportamento così definito dall’ordinamento.
Semplicemente il lobbying per l’ordinamento italiano a oggi non esiste. Ma come può essere vero? In un rapporto del marzo 2006 del cipi (Centro italiano di prospettiva internazionale) di Bruxelles, su “Le lobby d’Italia a Bruxelles” emerge come l’Italia – attraverso le Regioni, le autonomie locali, i grandi gruppi industriali, le associazioni di settore, i gruppi finanziari e assicurativi, le università, la stampa e le ong – si adopera in attività di lobbying, testimoniando che, dove regolata, l’attività lobbistica italiana è sinonimo di grande dinamicità. Un segnale evidente di una società preparata a metabolizzare il lobbying viene dal mondo delle università. Sono ormai diversi gli atenei italiani che offrono corsi di specializzazione post-universitaria in attività di lobbying e relazioni istituzionali, sintomo chiaro che il paese reale si sta, da tempo, adattando a quella che è una naturale esigenza di tutte le società politiche contemporanee: l’attività di relazione.
Può quindi apparire normale interrogarsi sul perché di una mancata regolamentazione nazionale di questa attività. Da un lato, chi di fatto oggi è titolare di un interesse da tutelare è al tempo stesso capace, perché dotato di strutture adeguate, di esercitare direttamente le pressioni a tutela di un proprio tornaconto. Si pensi ad esempio alle grandi imprese o alle importanti associazioni di categoria e alle grandi confederazioni sindacali che, stringendo di fatto una relazione diretta con il mondo politico, sono efficienti nel tutelare gli interessi rappresentati. Certamente l’assenza di una previsione normativa non va ad inficiare le capacità di influenza di questi grandi players del panorama delle relazioni pubbliche. Appare però lecito domandarsi se una mancata regolamentazione non sia funzionale al ruolo stesso di questi grandi giocatori, se oggi l’esigenza di istituzionalizzare il lobbying non rappresenti un tipico caso di (paradosso eclatante!) interesse recessivo di fronte a situazioni dotate di maggiore tutela e forza contrattuale. Poiché è sicuramente più vantaggioso operare in un mercato – oligopolista per carenza di partecipanti – che accettare le regole della concorrenza.
Individua forse la vera chiave di lettura Massimo Micucci – uno dei soci fondatori di Reti SpA, primo vero esempio di lobbying italiano impostato su standard di ispirazione anglosassone – quando, in un articolo pubblicato dal quotidiano Il Riformista nel maggio 2004, sostiene che il lobbying è funzionale al rafforzamento della democrazia. Ciò acquista maggiore valenza considerando la trasformazione del panorama politico italiano intervenuta negli ultimi dieci anni con il radicamento della logica bipolare tra centrodestra e centrosinistra. Infatti, l’allineamento alle società politiche occidentali più evolute insieme a una sostanziale stabilità delle istituzioni e l’esperienza (purtroppo interrotta) del sistema maggioritario uninominale, hanno introdotto nella realtà italiana la convinzione che ogni interesse, a partire dal più debole, potesse avere quanto meno una rappresentanza territoriale, interpretata spesso in maniera trasversale dai politici. Ma se la territorialità individua uno dei caratteri di un interesse costituito, esso rappresenta solo un aspetto della rilevanza di un interesse particolare che non dovrebbe – in linea di massima – per ragioni di opportunità essere veicolato dal soggetto politico, il quale per definizione opera a tutela dell’interesse generale. Interesse particolare e politica scoprono – o meglio, dovrebbero scoprire – nelle attività di lobbying il punto di connessione, dove il soggetto politico viene informato sulle dinamiche, sulla complessità e sui problemi a cui certe tematiche sono sensibili. Di contro, il detentore di un interesse esclusivo prende coscienza delle ragioni della politica e delle difficoltà del governo della cosa pubblica, viene informato delle ragioni dell’interesse generale e di quelle opposte o diverse dalle proprie «in un percorso di responsabilità, di dialogo e di trasparenza».
Continuare a far esistere il lobbying in forma impropria o clandestina rischia quindi di confonderlo e assimilarlo a pratiche illecite, ai limiti della corruzione. Esso dovrebbe invece essere considerato alla stregua di un atto democratico e, come tale, va incoraggiato. Lungi dall’essere una scienza a parte, il lobbying presuppone un approccio integrato che coniughi capacità comunicative e di relazione adatte alle istituzioni pubbliche, una cognizione esatta dei diversi processi decisionali. Una buona pratica di lobbying richiede capacità in aree diverse quali sociologia, politica, diritto, economia e storia.

Puntare su trasparenza e competenza
Il lobbying non è affatto sinonimo di corruzione, connivenza o favoritismo (attività, queste, formalmente condannate dalle istituzioni in cui è regolamentato). Al contrario, si tratta di un dialogo mutuamente proficuo che giova sia alle istituzioni, sia agli interessi dei gruppi esterni, è un indicatore di dinamicità della società politica, nella quale interessi costituiti hanno l’occasione di far presente al legislatore il proprio caso, allo scopo di informarlo meglio in relazione alle conseguenze delle azioni da lui proposte. Grazie all’elevato contenuto tecnico, competente, rapido e sintetico del loro approccio tipico, le lobbies hanno la capacità di portare sul tavolo del governo delle istanze minoritarie, ciò che l’opposizione in parlamento non sarebbe in grado di fare (o, in certi casi, non ha nemmeno interesse a fare). Infatti i partiti politici e il parlamento hanno un approccio necessariamente più lento, articolato e ideologizzato. Inoltre una libera attività dei gruppi di interesse contribuisce a controbilanciare la forza, a volte eccessiva, di quei gruppi di pressione che in un sistema caratterizzato da spinte corporative avrebbero invece totale libertà d’azione. È necessario però per la democrazia che il lobbying sia praticato alla luce del sole, così che gli elettori possano rendersi conto di quali pressioni sono esercitate su coloro che scrivono le loro leggi, e possano di conseguenza giudicare autonomamente il peso e la rilevanza di tali influenze.
Il paradigma di riferimento a sostegno del lobbying è, senza dubbio, storicamente quello statunitense; più di recente si aggiunge – visto anche il diretto coinvolgimento di interessi nazionali – quello europeo. Le evoluzioni del caso Abramoff, dal nome del più famoso lobbista americano travolto da un caso di corruzione, diranno se si tratta di un caso isolato, e tutto sommato fisiologico, oppure se il sistema delle relazioni istituzionali negli usa necessita di un ulteriore ripensamento dopo quello del 1995 che con il Lobbying Disclosure Act abrogò il Federal Regulation of Lobbying Act del 1946. Il legislatore americano d’altro canto si è sempre preoccupato di contrastare le influenze occulte sui processi decisionali, implementando i meccanismi di trasparenza e sacrificando un approccio etico-deontologico. Al contrario di quanto avviene nell’Unione Europea dove, a oggi, non esiste una legge specifica sul lobbying, ma soltanto codici di condotta e testimonianze di autodisciplina da parte dei gruppi di interesse. Ma anche nell’Unione Europea si avverte la necessità di tutelare maggiormente i meccanismi di trasparenza. Infatti, nel novembre 2005 la Commissione Europea ha inaugurato la European Transparency Initiative, una proposta utile a sviluppare un dibattito per «aumentare l’apertura e l’accessibilità delle istituzioni europee, per far crescere la consapevolezza sull’uso del budget europeo, e per rendere le istituzioni dell’Unione maggiormente responsabili di fronte al pubblico». Argomento determinante è quello della trasparenza nel lobbying. La trasparenza nel settore è considerata spesso insufficiente soprattutto rapportata alle conseguenze e all’influenza enorme che lobbisti e gruppi di interesse con sede a Bruxelles hanno sulla legislazione europea – specialmente nelle parti più tecniche – e sulla gestione del budget. Quello della regolamentazione del lobbying è diventato quindi un aspetto fondamentale. Se l’etica del lobbista è funzionale a un certo grado di trasparenza della propria attività, sta alle istituzioni europee il compito di tutelare la trasparenza nelle pratiche di lobbying. Al momento attuale infatti la regolamentazione dell’attività di lobbying nelle istituzioni europee è imperfetta e frammentata. I registri delle organizzazioni di lobbisti sono volontari e non forniscono particolari informazioni sugli interessi rappresentati o sui finanziamenti ricevuti. Stessa considerazione vale per i codici di condotta volontari, non universalmente accettati e spesso lacunosi.
Se da un lato in sede europea c’è chi preme affinché la Commissione imponga i codici di autoregolamentazione a chi fa lobbying, altri reclamano una normativa rigorosa che obblighi i lobbisti alla registrazione, a dichiarare la provenienza delle proprie disponibilità finanziarie e che vigili sui funzionari europei registrando – a esempio – i colloqui con i lobbisti o prevedendo limitazioni al passaggio dal ruolo di funzionario a quello di lobbista.
L’esperienza americana e quella europea possono rappresentare un riferimento concreto se, finalmente, in Italia si decidesse di dar seguito a un’istanza da troppo tempo disattesa. Esiste ormai una consapevolezza diffusa sul ruolo che il lobbying può giocare come supporto al decision maker e non manca, d’altronde, l’offerta formativa utile a fornire il necessario serbatoio di professionalità a un settore che potrebbe risultare strategico nel futuro del paese. Resta solo da vedere se il legislatore sarà capace di dare giusto rilievo alle attività di lobbying. Sarà pero necessario che la imprescindibile trasparenza nel settore – requisito primario non derogabile – non sia il risultato di una iper regolamentazione che rischi di soffocare sul nascere le prospettive del lobbying in Italia. Non è irrilevante il dato per cui nella sola Washington il business del lobbying è stimato in due miliardi di dollari l’anno. Logica conseguenza è che il lobbying potrebbe avere nel nostro paese anche – almeno in prospettiva – un importante impatto economico, con i benefici in termini di indotto che un’economia di mercato ben conosce. Una regolamentazione del lobbying rappresenterebbe, da diversi punti di vista, più un’opportunità che un rischio per il sistema istituzionale ed economico.

 

Giuseppe Lanzilotta, esperto di Pubblica amministrazione e di relazioni istituzionali. Nella passata legislatura è stato consigliere del ministro per la Funzione Pubblica, attualmente collabora con il Servizio Studi dell’Aran.

(c) Ideazione.com (2006)
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