In Italia
è un’acquisizione recentissima l’uso del termine lobbying
nel suo significato proprio1 e non più come dirty word2, sinonimo
di affarismo fraudolento e corruzione. L’apertura all’accezione
positiva del termine e quindi dell’attività stessa di lobbying
si deve da un lato alla intuizione e al coraggio di quei pochi che nel nostro
paese, sfidando opinione diffusa ed arretratezza culturale, hanno dato vita
ad esperienze pionieristiche in questo campo, educando dal basso le aziende
e il sistema politico ad un nuovo approccio alle istituzioni e al momento
decisionale. Dall’altro, tale apertura è la conseguenza naturale
della scomposizione del sistema decisionale e del ruolo che in esso svolge
il dibattito comunitario, nel quale l’attività di lobbying
gode di uno dei più alti livelli di maturità ed articolazione,
e dove peraltro l’incapacità del nostro sistema in materia
di rappresentanza degli interessi emerge in maniera eclatante.
Il dato non stupisce. La partecipazione del nostro paese alle fasi decisionali
dell’Unione Europea è stata viziata per lungo tempo da un deficit
di rappresentanza persino degli interessi più propriamente istituzionali.
Il piano è completamente altro, ma sembra illuminante – rispetto
alla scarsa consapevolezza con cui il nostro sistema decisionale si integra
con quello comunitario – considerare il ritardo con cui l’Italia
si è adeguata agli “standard di partecipazione dei parlamenti
nazionali” dei paesi membri alla fase ascendente del diritto comunitario.
Per quanto essa abbia partecipato attivamente al dibattito sviluppatosi
in merito – segnato tra l’altro in maniera cruciale dal contributo
del “Protocollo Napolitano”3 – solo nel 2005, con la legge
comunitaria4, nel nostro paese è stato introdotto il sistema della
“riserva di decisione parlamentare”, che consente finalmente
al parlamento nazionale di esprimere un indirizzo al governo sulle principali
questioni in via di definizione nell’ambito dei Consigli ue. Il ritardo
con cui l’Italia è riuscita a veicolare le istanze provenienti
dal suo parlamento, rispetto alla media degli altri paesi membri, è
di circa dieci anni.
I fragili fondamenti di un pregiudizio teorico
Le ragioni
di tale ritardo risiedono in un vero e proprio pregiudizio teorico, generato
dall’impatto che il riconoscimento del ruolo dei gruppi d’interesse
e della loro attività può avere su concetti cardine della
teoria dello Stato alla base del nostro ordinamento: il concetto di rappresentanza
politica, di interesse pubblico, di rappresentanza degli interessi. L’induzione
fatta propria anche dai commentatori più attenti si può riassumere
grosso modo così: la politica decide in base all’interesse
pubblico, lobbying è fare pressione per ottenere una decisione favorevole
a pochi, dunque contraria all’interesse pubblico. Tale induzione,
solo apparentemente semplicistica e poco articolata, è in realtà
la sintesi di una crisi del concetto di rappresentanza politica che assume
nuove forme in relazione alla entrata in scena dei gruppi d’interesse,
ma che non è certo nuova nella riflessione giuridica.
L’idea contemplata nel nostro ordinamento è quella di rappresentanza
politica come rappresentanza dell’interesse generale5, legata al principio
dell’assenza di vincolo di mandato, e ben lontana da quella concezione
fluida e dinamica di interesse pubblico come «somma degli interessi
dei componenti una determinata comunità» che risale già
a Bentham. Tale impianto ha impedito di accedere alla convinzione che sia
compito del governo e di un quadro regolatorio efficiente garantire un trasparente
e corretto confronto degli interessi. Questo confronto permetterebbe, in
base ad una valutazione politica, la selezione degli interessi meritevoli
di tutela, come nella conclusione classica dell’importante teoria
economica di stampo liberale cosiddetta della Public Choice, mai penetrata
davvero nel dibattito teorico italiano6.
Nel nostro paese l’ipocrisia del dibattito sul monopolio della rappresentanza
degli interessi da parte dei partiti politici ha concorso in maniera determinante
alla scarsa visibilità e la scarsa legittimazione politica degli
interessi particolari. Nascondendosi dietro la “missione” di
dover rappresentare l’interesse generale, e nella consapevolezza omertosa
di tutto il sistema sulla totale inadeguatezza del finanziamento pubblico,
i partiti hanno fatto proprie le istanze ed i metodi meno legittimi, dando
luogo a quelle commistioni tra politica ed affari che poi sono esplose in
maniera devastante.
Tendere ad una definizione più marcata della distinzione tra ruolo
rappresentativo dei partiti e loro attività di veicolazione degli
interessi, mediante l’istituzionalizzazione di un sistema che legittimi
i gruppi di pressione, può restituire ai partiti stessi la loro vocazione
«costituente degli organi rappresentativi e di governo»7, luogo
privilegiato di sintesi di tutte le istanze provenienti dalla società.
I partiti non perderanno certo il ruolo di mediatori, ma potrà essere
riservata loro un’area più confacente di rappresentanza di
quegli interessi strettamente legati alle ragioni fondanti del movimento,
o comunque di connotazione più generale. Le due forme sono da considerare
nient’affatto sostitutive l’una dell’altra: anche nel
caso di un partito fondato in maniera specifica sulla tutela dell’interesse
di una determinata categoria (il Partito pensionati, ad esempio), le forme,
il metodo e la capacità di influire sulle decisioni politiche saranno
differenti e non in conflitto con un metodo lobbistico.
La legittimazione dell’attività di lobbying si accompagna inoltre
alla conquista di un certo grado di autonomia della società civile
e della sua capacità di associarsi per rappresentare e tutelare interessi
economici e civili, accedendo in maniera diretta alle sedi deliberative
e di governo. In un vero tessuto democratico la dialettica tra potere politico
e autonomie civili è fondamentale ed in Italia è una conquista
recente la consapevolezza del diritto dei gruppi rappresentativi degli interessi
più vari a essere interlocutori diretti dei decisori e della loro
legittimazione istituzionale8. Analizzate le cause della “questione
pregiudiziale” nei confronti dell’attività lobbistica,
si può con serenità finalmente affermare che essa non solo
non ha effetti distorsivi sull’attività del legislatore, ma
può avvantaggiarla notevolmente.
Come è facilmente riscontrabile forse più in ambito comunitario
che in quello nazionale, il patrimonio di conoscenze mirate e dettagliate
accumulate nell’ambito di un lavoro di lobbying può incrementare
il livello di consapevolezza del decisore e diventare uno dei maggiori punti
di forza dell’attività lobbistica. La complessità dei
fenomeni da normare implica infatti che il singolo deputato o senatore,
o il funzionario stesso della istituzione coinvolta, non possano essere
in possesso di tutte le conoscenze ed i dati settoriali di cui può
avvantaggiarsi un lobbista, interessato ed incentivato ad aggregare ed analizzare
il maggior numero possibile di informazioni sul tema.
Nella maggior parte dei paesi membri dell’Unione è alta la
consapevolezza della significatività del ruolo dell’attività
di lobbying nella garanzia di qualità ed efficienza delle norme.
Da qui la necessità di tutelare la sua funzione come fattore fondamentale
per la competitività del paese. La miopia nei confronti dell’azione
dei gruppi di pressione in Italia ha determinato finora non solo la mancanza
di una riflessione lucida su questo tipo di attività, ma soprattutto
la incapacità di comprendere l’impatto che questa può
avere sul sistema economico. Tale impatto è determinato da due fattori:
il contributo effettivo che un’attività adeguata di lobbying
può dare ad una migliore regolazione; i costi veri e propri, per
il sistema, della mancata partecipazione di tutti gli attori coinvolti nel
processo decisionale.
Quanto al primo punto, le considerazioni già svolte sull’importanza
dell’apporto delle informazioni in possesso di un gruppo di pressione,
rispetto alla qualità ed efficienza della legislazione, sono supportate
e valorizzate da quanto avviene in altre democrazie. Nel Regno Unito, ad
esempio, da tempo l’attività di lobbying è considerata
parte integrante delle politiche legislative, tanto da giocare un ruolo
fondamentale nella strategia di better regulation.
In sedi istituzionali come la Task Force per la better regulation9, priorità
assoluta è data al ruolo consultivo che i gruppi di pressione svolgono
nel corso del procedimento legislativo10; e, cosa più importante,
la stessa politica di better regulation è vista come strumento potenzialmente
al servizio dell’attività lobbistica. Il Department of Trade
and Industry, competente nella struttura di governo del Regno Unito per
lo sviluppo delle politiche di competitività e concorrenza, riporta,
tra i vantaggi della stessa, come la «Better regulation can be used
as a guiding principle in lobbying. Companies should ask to see impact assessments.
If they don’t agree with the evidence provided, they should make their
views known». Dunque, addirittura una strategia istituzionale al servizio
dell’attività lobbistica, intesa come momento fondamentale
per lo sviluppo e per la competitività delle imprese.
Nonostante buona parte della disciplina in materia di semplificazione normativa11
preveda anche l’ampliamento delle procedure di consultazione e il
diretto coinvolgimento delle categorie interessate nei processi di regolazione,
è ragionevole dubitare che i lobbisti potrebbero disporre tempestivamente
o in maniera agevole degli strumenti di analisi di impatto della legislazione.
Essi infatti non sono ancora pacificamente ammessi in Parlamento e si scontrano
con la reticenza delle istituzioni parlamentari e governative a far filtrare
informazioni che esulano dall’ordinario procedimento legislativo.
Un’ampia ed articolata concezione della competitività economica,
in altri sistemi politici fa dell’attività lobbistica non solo
un momento fondamentale della migliore regolazione ma della migliore efficienza
del sistema economico in generale. L’incapacità poi di un paese
di fare un’adeguata pressione sulle istituzioni europee – è
stato giustamente rilevato nel Rapporto cipi (Centro italiano prospettiva
internazionale) 200612 – si traduce in una rinuncia netta ad un ritorno
economico che non consiste, come nella visione più diffusa, nella
capacità di partecipare adeguatamente alla spartizione dei fondi
comunitari, bensì nell’essere in grado di influenzare in maniera
adeguata il processo normativo e regolamentare dell’Unione. Un’efficace
azione di lobbying europeo consiste proprio nella capacità «di
influenzare quell’80 per cento della normativa europea che ha un impatto
diretto o indiretto sullo sviluppo economico e sociale degli Stati membri»13.
I dati forniti dal rapporto citato invece registrano il numero scarso di
efficaci azioni di lobbying portate avanti dall’Italia nel contesto
comunitario, l’incapacità di fare sistema, l’inadeguatezza
professionale.
L’assenza di un’esperienza nazionale in tal senso è alla
base di queste carenze; l’attività di rappresentanza degli
interessi nel nostro paese è ancora poco riconosciuta e guardata
con distacco o sospetto.
La regolamentazione dell’attività
di lobbying
Uno
dei principali ostacoli, nello svolgimento di tale tipo di attività,
è la scarsa collaborazione da parte delle istituzioni. Non è
questa la sede per discutere del livello di trasparenza del processo decisionale
in Italia, ma si può denunciare senza dubbio un atteggiamento ostruzionistico
delle istituzioni, che tendono a rilasciare le informazioni in tempi lunghi
– rendendole dunque inutili – o a non rilasciarle del tutto.
Conoscere i contenuti degli emendamenti ad un determinato testo di legge,
come la Finanziaria, a distanza di poche ore dalla presentazione può
essere del tutto inutile.
L’arroccamento delle istituzioni registrato fin qui ha avuto in alcuni
casi anche delle giustificazioni teoriche, rintracciate nella debolezza
dell’interlocutore pubblico che in Italia non può contare su
strutture corpose e stabili proprie dei paesi in cui il fenomeno lobbistico
è più radicato, e che dunque potrebbe portare ad una permeabilità
eccessiva dell’apparato decisionale rispetto alle pressioni dei privati.
È chiaro, invece, come il processo normativo ormai coinvolga in maniera
sempre più complessa cittadini ed imprese, e sia necessario dunque
anche per le istituzioni coinvolte dialogare e confrontarsi con tali realtà,
anziché chiudersi.
Giungere ad una regolamentazione adeguata dell’attività di
lobbying sembra un’esigenza improrogabile. In primis, sarebbe auspicabile
un adeguamento dei regolamenti parlamentari, nel senso di una più
agevole ammissione di tali professionisti nelle sedi di Camera e Senato
o, come in altri paesi, nel senso della formalizzazione di prassi consolidate
di audizione dei gruppi di interesse da parte delle Commissioni parlamentari.
Gli unici atti normativi che riconoscono l’esistenza dei gruppi di
pressione sono rappresentati dai regolamenti dei questori delle due Camere
in merito alla concessione agli estranei dei permessi di accesso permanente
ai palazzi. Atti interni, dunque, strettamente discrezionali e dai contenuti
che invece andrebbero opportunamente pubblicizzati. Le norme dei Regolamenti
di Camera e Senato, che non riconoscono esplicitamente l’esistenza
del fenomeno, ma che vengono nella pratica utilizzate per i contatti istituzionali
tra parlamento e gruppi, sono quelle relative alle attività conoscitive
svolte dalle Commissioni. Non sono previste esplicitamente hearings praticabili
in relazione alla discussione di ogni disegno di legge, ma in via di prassi
è possibile indire “audizioni informali”, cui qualunque
soggetto interessato può essere ammesso, ma a discrezione della Commissione
e senza alcuna forma di resocontazione o pubblicità.
Le varie ipotesi di emanazione di una disciplina di legge ad hoc, invece,
sono fino ad oggi sfumate; proposte in tal senso sono state presentate in
parlamento sin dalla IX legislatura, ma con esiti sempre vani. I tipi di
regolamentazione cui questa attività può essere assoggettata
sono vari, ed i modelli statunitense e comunitario ne riflettono gli indirizzi.
L’assenza di un’adeguata disciplina agevola senza dubbio l’attività
dei gruppi più forti, realizzando proprio la condizione che si teme
di legittimare con l’approvazione di una legge in merito. La conseguenza
di questo atteggiamento è la presenza de facto dell’influenza
di pressioni particolaristiche nei processi decisionali, che si è
svolta e si svolge nell’ombra, e dunque nella possibilità di
dar vita realmente a distorsioni illegittime dell’attività
dei decisori. Prendere atto di come questo fenomeno sia una manifestazione
fisiologica di tutti i sistemi politici complessi pare ormai improrogabile,
laddove gli interessi rappresentati siano chiaramente legittimi e meritevoli
di tutela.
L’esperienza comparata, pur nella diversità di approccio al
fenomeno, insegna come il punto essenziale sia quello di sottoporre il flusso
delle istanze rivolte ai decisori ad una regolamentazione basata essenzialmente
sulla trasparenza. È fondamentale cioè assicurare la piena
pubblicità delle posizioni portate a conoscenza delle istituzioni,
sancendo che rappresentare interessi dichiaratamente di parte, nel rispetto
di regole di trasparenza valide per tutti, che diano luogo ad un confronto
aperto ed esplicito, possa contribuire a far assumere decisioni finali che
godono di un maggior grado di imparzialità, oltre che di consapevolezza.
A tale esigenza risponderebbero sia l’istituzione di un registro di
tutti coloro che svolgono tale attività, sia gli obblighi previsti
in vari modi dalle proposte presentate di relazionare periodicamente su
attività svolte, soggetti contattati, settori rappresentati, spese
sostenute. Tutti quegli elementi, insomma, utili a valutare, da parte di
un organismo di controllo appositamente istituito, la legittimità
delle azioni poste in essere. Le esigenze di trasparenza sono particolarmente
tutelate nel modello di stampo statunitense, mutuato in tutte le proposte
di legge presentate in Italia, anche perché in quella sede il fenomeno
lobbistico è strettamente intrecciato al tema dei contributi dei
privati alla politica: è esplicitamente previsto, nel Lobbying Disclosure
Act, che il privato che si rivolge al politico nell’ambito di un’attività
di rappresentanza dei propri interessi, possa versare allo stesso un contributo
in danaro.
Se è vero che un tale quadro normativo alimenta le degenerazioni
del fenomeno lobbistico alla Abramoff14, è vero anche che la difesa
del finanziamento pubblico ai partiti portata avanti per anni in Italia
ha contribuito a sviluppare un sistema occulto di contributi illegali che
è poi esploso con eccezionale virulenza.
La soluzione a tali degenerazioni non risiede certo nel mancato riconoscimento
dei rapporti tra gruppi d’interesse e politica, che anzi vanno regolamentati
al fine di garantire correttezza e trasparenza15. Ammettere il contributo
dei privati alla politica nel nostro ordinamento ha significato prendere
atto ed affrontare realisticamente un problema – quello degli ormai
altissimi costi della politica – che è alla base dei principali
fenomeni di corruzione della storia recente; improntare ora entrambe le
discipline ad obblighi di assoluta trasparenza e di controlli adeguati,
sembra indispensabile.
Note
1.
«Una delle forme moderne di intervento e rappresentanza degli interessi
della società civile verso il mondo dei decisori politici»,
da “Fare lobbying vuol dire rafforzare la democrazia”, di Massimo
Micucci, Il Riformista, 6 maggio 2004.
2. Rubens Razzante, “Lobbies e trasparenza: una regolamentazione possibile?”,
in Problemi dell’informazione, settembre 2003, n. 3.
3. Giorgio Napolitano, “Valorizzare il ruolo dei parlamenti nazionali
nella costruzione europea”, su www.europa.eu.int/constitution/futurum,
nella sezione documenti del parlamento.
4. Legge 4 febbraio 2005, n. 11 recante “Norme generali sulla partecipazione
dell’Italia al processo normativo dell’Unione Europea e sulle
procedure di esecuzione degli obblighi comunitari”.
5. Concezione di stampo francese, contrapposta a quella di matrice anglosassone
che ammette invece la rappresentanza politica come rappresentanza di interessi
particolari, vedi in proposito Ivano Moreschini, “Lobby: le regole
negli Stati Uniti e in Italia”, in Democrazie e diritto, 1995, n.
2.
6. Vedi in proposito Nicola Lupo, “Verso una regolamentazione del
lobbying anche in Italia? Qualche osservazione preliminare”, intervento
alla tavola rotonda svoltasi a conclusione del Convegno “Chi ha paura
delle lobbies? Come e perché le lobbies possono far bene alla democrazia”,
Firenze, 16 settembre 2005. (www.amministrazioneincammino. luiss.it, nella
sezione Parlamento, Note e commenti).
7. Piero Trupia, “La democrazia degli interessi, Lobby e decisione
collettiva”, 1989.
8. «Proprio oggi si invera la massima di Tocqueville sulla tendenza
e necessità per i cittadini di associarsi nelle democrazie che, più
che governo di popolo, sarebbero governo di gruppi. Gruppi che però
non “premono” come clienti su uno Stato-patrono, ma “negoziano”
con altri gruppi – nelle istituzioni – la partecipazione ai
benefici dello sviluppo”, Piero Trupia, op. cit.
9. La Better Regulation Task force (dal 2006 Better Regulation Commission)
è un organismo indipendente dedicato alle politiche di migliore regolazione,
istituito dal governo inglese nel 1997, presso il Cabinet Office.
10. «Involving those being regulated in the design of regulations
is not just about good practice; it also makes for better, more effective
legislation and avoids the pitfall of unintended consequences». Sir
David Arculus, “Better Regulation Task Force Report del 22 September
2005”, disponibile su www.brc.gov.uk/news/2005/euconsultation.asp.
11. Legge 8 marzo 1999, n. 50; Legge 28 novembre 2005, n. 246.
12. Paolo Raffone, “Le lobby d’Italia a Bruxelles”, disponibile
su http://www.cipi-network.org, nella sezione Archivio, 2006.
13. Paolo Raffone, op. cit.
14. Jack Abramoff, uno dei più noti lobbisti statunitensi, coinvolto
in due inchieste giudiziarie con vari capi d’imputazione, tra cui
frode, evasione fiscale e finanziamenti illeciti.
15. Lo scandalo Abramoff negli Stati Uniti ha indotto l’elaborazione
immediata di una normativa più restrittiva in materia di lobbying,
certo non la sua delegittimazione.
Leda Petrone, dottoranda di ricerca in “Sistemi politici e giuridici comparati” all’Università di Lecce, esperta di lobbying e pubblica amministrazione.
(c)
Ideazione.com (2006)
Home
Page
Rivista | In
edicola | Arretrati
| Editoriali
| Feuilleton
| La biblioteca
di Babele | Ideazione
Daily
Emporion | Ultimo
numero | Arretrati
Fondazione | Home
Page | Osservatorio
sul Mezzogiorno | Osservatorio
sull'Energia | Convegni
| Libri
Network | Italiano
| Internazionale
Redazione | Chi
siamo | Contatti
| Abbonamenti|
L'archivio
di Ideazione.com 2001-2006