Era stato
Alberto Ronchey a parlare per l’Italia di “fattore k”,
da comunismo. Fu criticato, ma è un fatto che solo dopo la scomparsa
dell’Unione Sovietica e il cambiamento di nome l’ex pci è
riuscito a diventare forza di governo, e anche a portarsi appresso qualche
scheggia che il nome di “comunista” lo usa tuttora. Per l’America
Latina, si potrebbe iniziare a parlare di “fattore Ch”: che
nell’alfabeto spagnolo è considerata una lettera diversa dalla
“c”, e che si pronuncia “cè”. Esattamente
come il Che Guevara, solo che qui ci riferiamo alla “ch” del
presidente venezuelano Hugo Chávez.
Il fenomeno si è verificato più o meno alla metà di
quella lunga serie di appuntamenti che nella regione chiamano “l’anno
elettorale latino-americano”: dal voto in Honduras del 27 novembre
2005 alle presidenziali in agenda nello stesso Venezuela per il 3 dicembre
2006. Ma prima ancora ci sono state le elezioni che hanno portato a insediarsi
alla presidenza il primo gennaio del 2003 Luiz Inácio da Silva Lula
in Brasile, il 25 maggio 2003 Néstor Kirchner in Argentina e il primo
marzo 2005 Tabaré Vázquez in Uruguay. Personaggi in realtà
non del tutto assimilabili. Lula, infatti, è un ex sindacalista alla
testa di un partito espressione diretta dei sindacati che in qualche modo
riproduce la storia del laburismo inglese. Inoltre, per rassicurare l’elettorato
moderato si è scelto come vicepresidente un industriale tessile espressione
di un piccolo Partito liberale che può far parlare di una formula
lib-lab: sbilanciata a sinistra dall’ulteriore alleanza con un Partito
comunista già filo-albanese, ma riequilibrata poi al centro da successive
intese con i centristi del Partito del movimento democratico brasiliano
(pmdb) e addirittura con la destra del Partito progressista, già
sostenitore del regime militare. Al contrario Kirchner è espressione
di un Partito giustizialista la cui ultima delle molte giravolte storiche
prima di lui era stata con Menem l’adesione alle privatizzazioni del
Consenso di Washington e l’affiliazione all’Internazionale dc.
Eletto contro Menem in un contesto in cui sia i peronisti che i radicali
si erano frantumati in tre tronconi, l’oriundo svizzero ha fatto un
cambiamento ulteriore, tornando a una retorica populista che ha scavalcato
Lula a sinistra. Quanto a Vázquez, è un socialista alla testa
di un “Fronte Ampio” che va dagli ex guerriglieri Tupamaros
ai dc e a fuoriusciti degli storici partiti Colorado e Blanco. Ovvero, qualcosa
di equiparabile alla coalizione di Prodi. Inoltre, approssimativamente tra
l’insediamento di Lula e quello di Vázquez, si consuma la vicenda
di Lucio Gutiérrez: colonnello fallito golpista riciclato alla lotta
elettorale come leader populista alla Chávez; presidente però
dell’Ecuador dal 15 gennaio 2003 dicendo di voler piuttosto assomigliare
a Lula; e cacciato infine il 20 aprile 2005 da un’insurrezione popolare.
Terzo capo di Stato ecuadoriano a fare quella fine in otto anni.
Quando Chávez
inizia a parlare dell’“asse bolivariano” di governi di
sinistra che si starebbe formando in America Latina il carisma di Gutiérrez
è già abbastanza appannato da indurlo a non includercelo.
In compenso assieme a Lula, Kirchner e Vázquez ci mette dal ferragosto
del 2003 il paraguayano Nicanor Duarte Frutos, di quel Partito Colorado
che è storicamente di destra, e che è rotto a ogni trasformismo
peggio ancora dei peronisti: colorado quel generale Alfredo Stroessner dittatore
tra 1954 e 1989; colorado quel generale Andrés Rodríguez che
lo ha poi cacciato; colorado quel Juan Carlos Wasmosy che è stato
tra 1993 e 1998 il locale referente delle politiche del Consenso di Washington;
colorado quel generale Lino Oviedo che tentò contro di lui un golpe
nel 1996; colorado quel Raúl Cubas divenuto presidente come prestanome
dello stesso Viedo nel 1998; colorado quel vicepresidente Luis María
Argaña del cui omicidio Cubas e Oviedo furono accusati; colorado
quel Luis Ángel González Macchi portato alla presidenza fino
al 2003 dopo l’insurrezione contro Cubas; e ora colorado anche Duarte,
che mantenendosi sulla stessa macchina clientelare di potere flirta ora
con Kirchner e Chávez. Inoltre nel blocco il presidente venezuelano
colloca evidentemente lui stesso, al potere dal 2 febbraio 1999, ma riconsacratosi
clamorosamente con la pur contestata vittoria al referendum revocatorio
del ferragosto 2004. E, come precursore, Fidel Castro, líder máximo
di Cuba dal capodanno del 1959.
A questo “asse bolivariano”, dal libertador Simon Bolívar,
Chávez ha contrapposto un “asse monroiano”, da quel presidente
James Monroe sotto cui fu elaborata quella dottrina “l’America
agli americani” oggi vista dalla vulgata anti-yankee come una rivendicazione
imperialista sull’intero Continente. Andrés Oppenheimer, un
editorialista argentino che vive tra Miami e Città del Messico, ha
vinto il Premio Pulitzer nel 1987, è il più noto latino-americanologo
della cnn e redige una rubrica di analisi che dal Miami Herald è
ripresa in tutti i paesi latino-americani, parla invece di “asse atlantico”
e “asse pacifico”. Con valutazioni evidentemente opposte, le
due coppie di definizioni definiscono però lo stesso fenomeno. A
lungo “rappresentata” a colpi di votazioni pro e contro la condanna
di Cuba alla Commissione per i Diritti Umani dell’onu, la spaccatura
viene infine ufficialmente allo scoperto al quarto vertice delle Americhe
tenutosi il 4 e 5 novembre 2005 nell’argentina Mar del Plata, col
rifiuto dei quattro paesi del Mercosur e del Venezuela di concordare una
data per la ripresa delle trattative sulla costruzione di un’area
di libero scambio delle Americhe: vecchio progetto usa noto con l’acrostico
di afta in inglese, di alca in spagnolo e portoghese. «Trenta paesi
vogliono tornare al tavolo di discussione e cinque no», commenta il
presidente messicano Vicente Fox, mentre Chávez celebra i contestatori
come “i cinque moschettieri”.
Al fondo, la politica
traduce un dato economico di fondo per cui mentre i paesi “pacifici”
sono comunque interessati al mercato usa, quelli “atlantici”
hanno prodotti in gran parte concorrenziali con quelli statunitensi, e il
Venezuela esporta poi solo petrolio, che non ha comunque bisogno di intese
per entrare negli usa. D’altra parte, nello stesso Congresso di Washington
vi sono forti resistenze protezioniste, tant’è che da tempo
ormai la Casa Bianca si muove sulla via degli accordi bilaterali. Né
l’atteggiamento dei “cinque moschettieri” è in
realtà univoco come sembrerebbe. Chávez, infatti, è
contrario per principio a un’afta che al suo export petrolifero non
serve, e lancia dunque lo slogan di una “Alternativa Bolivariana per
le Americhe” (alba) per soli latinoamericani. Brasile e Argentina,
invece, dicono che a loro l’afta andrebbe pure bene, se gli usa togliessero
i sussidi alla loro agricoltura, e non mancano di collaborare con la Casa
Bianca su vari temi, fino a fare peace-keeping tutti assieme ad Haiti. Mentre
i piccoli Uruguay e Paraguay, pur accettando la disciplina interna al Mercosur,
lasciano intendere che un accordo bilaterale con gli usa a loro potrebbe
anche interessare.
A quel punto, però, le armi sono ormai affilate. E l’anno elettorale
scandisce appunto le date degli scontri di questo immenso campo di battaglia,
anche se per la verità il primo assaggio in Honduras è interlocutorio.
Nell’ultimo paese in cui il tipico bipartitismo latinoamericano ottocentesco
si è mantenuto pressoché intatto, infatti, entrambi i candidati
principali hanno un profilo moderato e filo-usa. Anche lì, però,
con la vittoria del liberale Manuel “Mel” Zelaya Rosales sul
nazionale Porfirio “Pepe” Lobo Sosa si impone il candidato più
a sinistra, mentre il presidente uscente era stato un nazionale. Il 4 dicembre
scende poi in campo lo stesso Chávez con elezioni politiche che l’elezione
decide all’ultimo momento di boicottare dopo aver presentato le liste,
accusando la mancanza di garanzie. Malgrado il presidente dica che «chi
non vota per me o non va votare è come se votasse per Bush»,
solo il 25 per cento dei venezuelani si reca alle urne: cifre ufficiali,
perché l’opposizione parla di non più del 15 per cento.
Lo schiaffo è notevole, benché la propaganda di regime cerchi
di occultarlo in tutti i modi. Resta però il fatto che a questo punto
i deputati dei partiti chavisti compongono la totalità dell’Assemblea
Nazionale di Caracas.
L’11 dicembre la vittoria della socialista Michelle Bachelet in Cile
rappresenta un dato interlocutorio. Figlia di un generale lealista con Allende
che fu vittima del regime di Pinochet e perseguitata dal regime a sua volta,
la Bachelet ostenta inoltre un linguaggio femminista e modernizzatore alla
Zapatero che induce molti osservatori distratti a parlare di “onda
lunga di sinistra”. In realtà i socialisti cileni stanno con
dc e radicali nella Concertazione, alleanza rigidamente chiusa alla sinistra
comunista. Più di Lula, del Frente Amplio o dell’Ulivo, dunque,
ricorda quello che era in Italia il pentapartito della Prima Repubblica.
Dopo essere stata esule in Germania Est, la Bachelet per diventare ministro
della Difesa si è poi impratichita in Studi Strategici presso il
Pentagono, ed ha anche fatto un figlio con un ex pinochetista. Dall’altra
parte, il candidato che la costringe al ballottaggio è, per la prima
volta nella storia della destra cilena dal ritorno alla democrazia, uno
che nel 1988 si schierò contro il regime militare in occasione del
referendum. Insomma, lo scenario è più di riconciliazione
nazionale che di “sfondamento” dell’asse bolivariano nel
Pacifico, e d’altra parte la Concertazione continua a far propria
la politica economica ortodossa che ha iniziato il boom del paese fin dagli
ultimi anni del regime militare.
L’asse di Chávez,
invece, sfonda in Bolivia, dove il giorno 18 è eletto presidente
al primo turno col 53,74 per cento dei voti Evo Morales, il cui Movimento
al Socialismo (mas) ottiene la metà dei seggi al Congresso. Ora,
come biografia Morales assomiglia più a Lula che a Chávez:
non un ufficiale golpista ma un sindacalista, la cui organizzazione politica
non si struttura dall’alto ma si costruisce dal basso. La Bolivia
è però un paese molto più arretrato del Brasile, con
gravi problemi economici e razziali, e il sindacato di Morales non era di
operai metalmeccanici e dipendenti pubblici come quello di Lula, ma di piccoli
produttori di coca, in lotta contro le politiche di sradicamento forzato
imposte da Washington. In un paese dove i due terzi della popolazione sono
indigeni, Morales è pure il primo indio ad arrivare alla presidenza,
e per di più non è venuto alla ribalta attraverso quattro
campagne elettorali come Lula, ma essenzialmente come capo delle mobilitazioni
popolari che hanno costretto alle dimissioni di tre presidenti in due anni.
Una volta eletto, va detto, Morales tenta di annacquare un po’ la
sua immagine radicale e, dopo aver cavalcato la tigre della rivendicazione
irredentista dello sbocco al mare perso dalla Bolivia in favore del Cile
in una guerra ottocentesca, si reca in visita alla Bachelet per il suo insediamento,
vede anche Condoleeza Rice e a entrambe regala un charango, tipico strumento
musicale del suo paese. Ma insediatosi a sua volta, il 22 gennaio 2006,
stabilisce subito un’alleanza economico-politica con Cuba e Venezuela,
e annuncia una politica di nazionalizzazione degli idrocarburi e di espropriazione
delle terre che certo corrisponde in gran parte a genuine esigenze nazionali,
ma è fatta con modalità che non possono non evocare il chavismo.
Apparentemente opposta
alla Bolivia è la situazione del Costa Rica, dove si vota il 5 febbraio
2006. Noto come “Svizzera dell’America centrale”, si tratta
infatti dell’oasi di democrazia in testa a tutti gli indici di sviluppo
umano, e che ha perfino abolito l’esercito, in nome dello slogan “meglio
i maestri che i soldati”. Eppure, anche lì arriva l’ondata
a sinistra. Affonda infatti completamente il Partito di Unità Social-Cristiana
(pusc) del presidente uscente Abel Pacheco de la Espriella: un’amministrazione
molto attiva in sede onu per il suo impegno ideologico, sulla violazione
dei diritti umani a Cuba e su posizioni pro-vita in tematiche come l’aborto
o la clonazione, ma colpito da alcuni gravi scandali. Mentre tradizionalmente
il psuc era uno dei pilastri dello storico bipartitismo costaricense, stavolta
il suo candidato Ricardo Toledo non oltrepassa il 3,43 per cento dei voti,
e sul fronte moderato è addirittura superato dall’8,48 per
cento di Otto Guevara: nome nazista, cognome comunista ma leader dell’ultraliberale
Movimento Libertario. E per la presidenza c’è una specie di
derby “progressista” tra Óscar Arias Sánchez e
Ottón Solís Fallas. Il primo, già presidente tra 1986
e 1990, fu premio Nobel per la Pace nel 1987 per la sua decisiva mediazione
nelle guerre civili in Nicaragua e El Salvador. Ed è esponente di
quel socialdemocratico Partito di Liberazione Nazionale (pln) che è
stato negli ultimi sessant’anni il principale protagonista della democrazia
costaricense. Anche Solís viene dal pln, ma se ne andò sbattendo
la porta nel 2000 per protesta contro l’abbandono della tradizionale
ideologia assistenzialista del partito, e fondò il Partito di Azione
Cittadina (pac). È avversario dichiarato del Trattato per il Libero
Commercio con gli Stati Uniti e, pur essendo un personaggio certo lontano
da gente come Chávez o Morales, è indubbiamente il leader
più vicino a loro che si possa trovare in Costa Rica. Di fronte a
lui Arias rappresenta l’omologo di altri ex presidenti come Rafael
Caldera in Venezuela o Gonzalo Sánchez de Lozada in Bolivia: recuperati
come ultima risorsa prima che i Chávez e Morales arrivassero al potere.
E l’impressione è accentuata dalla revisione costituzionale
con la quale nel 2003 si rimuove il divieto di rielezione del capo dello
Stato, previsto fin dal 1969. Invece dei 20 punti di distacco che i sondaggi
avevano pronosticato ad Arias, finisce 40,92 contro 39,80 per cento: appena
18.000 voti di scarto. Il Nobel comunque è eletto al primo turno,
visto che la legge si accontenta di un quorum del 40 per cento. Ma il Tribunale
Supremo Elettorale sposta la proclamazione di un paio di settimane per ricontare
le schede da capo, lo sconfitto aggiunge nuove polemiche a quelle già
avanzate sulla legittimità della candidatura di Arias, e la sensazione
di generale malessere è accentuata da un livello di astensionismo
record, al 34,56 per cento.
Ma la polemica del Costa Rica è niente rispetto a Haiti, dove si
vota il 7 febbraio, dopo quattro rinvii. È il paese più povero
di tutto l’Emisfero Occidentale, e in 202 anni di storia indipendente
ha registrato solo nel 2001 il primo passaggio pacifico di consegne tra
due presidenti democraticamente eletti. Un successo peraltro presto vanificato
prima dal rinvio delle elezioni politiche da parte dell’eletto Jean-Bertrand
Aristide, poi dalla sommossa armata che lo ha costretto alla fuga, imponendo
l’arrivo di una Missione delle Nazioni Uniti di Stabilizzazione (minustah).
Lì il 70 per cento di affluenza è invece un record, dopo che
il 90 per cento dei 3,5 milioni di aventi diritto si era iscritto a registri
elettorali. Ciò malgrado i 162 sequestri di persona solo a dicembre,
una media di trenta assassinii al mese nella sola capitale Port-au-Prince,
i 9 caduti in combattimento in 20 mesi tra i 9000 uomini della minustah,
e il misterioso suicidio avvenuto il 7 gennaio del comandante stesso della
minustah: il tenente generale brasiliano Urano Teixeira da Matta Bacellar.
E a riprova dello spasmodico bisogno di normalità che questo voto
ha espresso, ai primi due posti sono proprio arrivati i due unici ex presidenti
con un carisma di istituzionalità: René Préval, tra
1996 e 2001 il primo e finora unico presidente in due secoli di storia di
Haiti che dopo essere stato eletto democraticamente sia poi riuscito a trasmettere
il potere a un successore in modo istituzionale; e Leslie François
Manigat, nel 1988 il primo presidente democraticamente eletto nella storia
di Haiti, anche se poco dopo rimosso dal golpe del generale Namphy. Mentre
Manigat è un dc appoggiato pure dalle Chiese protestanti, Préval
è però in odore di aristidismo, e riceve un’aperta simpatia
dalla stampa cubana, anche se è visto bene pure negli usa. Comunque,
quando i primi dati sembrano indicare che Préval ha mancato di poco
il 50 per cento che gli permetterebbe di essere eletto al primo turno, i
suoi sostenitori scatenano una sommossa al grido “Jacques Bernard
non sa contare!” (Bernard è il direttore generale del Consiglio
Elettorale di Haiti). Scorre altro sangue, e il 16 febbraio Préval
è dichiarato vincitore, dopo che il conteggio è stato riaggiustato
al 51,21 per cento. Non con particolare clamore, ma una volta al potere
anche Préval si inserisce nell’orbita del Venezuela chavista,
accettando le offerte di petrolio e assistenza di Caracas.
Ma a marzo, l’onda
lunga “bolivariana” inizia a rifluire. Il 12 si vota infatti
per il rinnovo del Congresso in Colombia, dove la sinistra radicale è
handicappata in partenza dal massiccio ripudio popolare verso la narcoguerriglia
di Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia (farc) e Esercito di Liberazione
Nazionale (eln). Per la prima volta nella storia i due partiti tradizionali
Liberale e Conservatore non ottengono la maggioranza assoluta degli eletti:
appena 36 liberali e 30 conservatori su 166 alla Camera; 18 conservatori
e 17 liberali su 102 al Senato. Ma un’ampia maggioranza è acquisita
dalla coalizione che appoggia il presidente Álvaro Uribe Vélez:
ex liberale che ha rotto col suo partito su una piattaforma di intransigenza
verso la guerriglia, e considerato il più stretto alleato di Bush
in Sud America, dove il suo è l’unico governo che ha appoggiato
l’intervento in Iraq (Nicaragua, El Salvador, Honduras e Repubblica
Dominicana, che hanno mandato contingenti, stanno in America Centrale).
Tutti assieme i conservatori, i due gruppi di ex liberali, il gruppo di
ex guerriglieri, il movimento regionale e il gruppo indipendente che formano
la maggioranza uribista prendono 95 deputati e 68 senatori. E il successo
è ulteriormente confermato alle presidenziali del 28 maggio. Uribe
Vélez, che pure ha fatto revisionare la Costituzione per candidarsi
una seconda volta, diventa il presidente più votato dell’Emisfero,
col 62,2 per cento. Il liberale ortodosso Horacio Serpa, il cui partito
sta nell’Internazionale Socialista, si candida per la terza volta,
ma non oltrepassa l’11,84 per cento, forse pagando anche una linea
trasformista che l’ha portato ad appoggiarsi all’“ondata
di sinistra” di Chávez. Secondo invece arriva col 22,04% Carlos
Gaviria Díaz, leader di un fronte di sindacati, ong e partitini denominato
Polo Democratico Alternativo, e che rappresenta in effetti come struttura
un omologo del Partito dei Lavoratori (pt) di Lula o del mas di Morales.
Attenzione, però! Per le peculiari condizioni di discredito in cui
le farc gettano il radicalismo di sinistra in Colombia, il Polo Democratico
Alternativo è in realtà un partito che su Chávez e
Castro è abbastanza critico. Certamente più critico dei teoricamente
più moderati liberali. In particolare Gaviria Díaz dice di
non poter «accettare che Chávez faccia cose che condannerei
se le facesse Uribe».
Tra il voto politico
e quello presidenziale in Colombia il 9 aprile fa intanto in tempo a svolgersi
il primo turno in Perù, paese che tra l’asse “bolivariano-atlantico”
e quello “monroiano-pacifico” gioca un ruolo di frontiera. Da
una parte, infatti, come nel primo gruppo ha una popolazione povera, divisa
da risentimenti razziali e inviperita contro i risultati non soddisfacenti
dei 16 anni di consenso di Washington praticati dalle amministrazioni di
Fujimori e Toledo. Dall’altro, però, anche qui la sinistra
è stata screditata: dai pessimi esiti del governo militare di sinistra
del generale Velasco Alvardo e di quello del populista Alan García,
e dal terrorismo di Sendero Luminoso e del Movimento Rivoluzionario Túpac
Amaru. Al voto dunque, arriva primo col 30,6 per cento Ollanta Humala: un
colonnello di sangue indigeno che ha tentato a sua volta un golpe, e che
a differenza da Gutiérrez è sponsorizzato da Chávez
in modo aperto, tant’è che ne segue una clamorosa lite col
governo Toledo, con tanto di ritiro dei rispettivi ambasciatori. E al secondo
posto il redivivo Alan García, capitalizzando una tenuta quasi etnica
dell’elettorato di appartenenza del suo Partito Aprista, la spunta
dopo un lungo conteggio col 24,3 per cento contro il 23,8 per cento della
cattolica Lourdes Flores Nano, in odore di Opus Dei. Ed è a questo
punto che si scatena “il fattore Ch”. Nella sua campagna, infatti,
García inizia a chiamare a raccolta l’elettorato moderato agitando
il fantasma di Chávez, fino al punto di ottenere addirittura la dichiarazione
di voto dello scrittore Mario Varga Llosa, che proprio contro il suo populismo
aveva deciso di scendere in campo alle elezioni del 1990 con un suo partito
liberale. Innervosito, Chávez reagisce nel modo più controproducente,
scambiando insulti con García e suscitando negli elettori un soprassalto
nazionalista per combattere il quale Humala è costretto a una scomoda
presa di distanza da Caracas. Nel contempo, la nazionalizzazione di idrocarburi
decisa da Morales in Bolivia è venuta a danneggiare soprattutto Brasile
e Argentina, mentre un litigio per una cartiera al confine giudicata inquinante
da Buenos Aires provoca un duro scontro tra Kirchner e Vázquez, che
per rappresaglia annuncia addirittura l’intenzione dell’Uruguay
di abbandonare il Mercosur e di stipulare un Trattato di Libero Commercio
con gli usa per conto proprio. Insomma, invece di rafforzare l’“asse
bolivariano” l’alleanza tra Chávez, Morales e Kirchner
lo manda in pezzi, e si delinea un’alleanza alternativa tra Lula,
Vázquez e la Bachelet, che attraverso l’Internazionale Socialista
sponsorizzano Alan García. E finisce il 4 giugno 2006 con la vittoria
dello stesso Alan García, col 52,6 per cento.
Il metodo, dunque, è ormai individuato. E nella campagna elettorale
messicana il “fattore Ch” è a questo punto di nuovo usato
da Felipe Calderón, del centro-destra del Partito di azione nazionale
(pan). Lo stesso partito del presidente uscente Vicente Fox, anche se per
la verità Calderón è un “ribelle” che alle
primarie si è imposto contro il suo delfino ufficiale. Associato
al presidente venezuelano è qui Andrés Manuel López
Obrador, ex sindaco di Città del Messico e candidato alla presidenza
per il Partito della rivoluzione democratica (prd). Anche se l’accusa
potrebbe sembrare ingiusta. López Obradoer non è infatti né
un militare né un sindacalista, ma un politico di professione. Non
è un idolo dei no global, ma è anzi contestato duramente dal
subcomandante Marcos che contro di lui organizza marce per convincere la
gente a non votarlo. Il suo partito prd sta nell’Internazionale Socialista
come quello di Alan García, e dice infatti che i suoi modelli sarebbero
piuttosto Lula e la Bachelet. E non contesta l’accordo di libero scambio
con usa e Canada nel nafta, limitandosi a chiedere una rinegoziazione della
clausola sull’apertura del mercato agricolo dal 2008. È però
vero che l’elezione di López Obrador segnerebbe un ritorno
ai buoni rapporti con Cuba dei tempi di prima di Fox, e suonerebbe pure
come una sconfessione dello stesso Fox dopo lo scontro con Chávez
di Mar del Plata, dopo il quale anche i rapporti diplomatici tra Messico
e Venezuela sono stati congelati come quelli tra Venezuela e Perù.
D’altronde Chávez cade nella trappola, minacciando querele
contro l’uso della sua immagine da parte del pan. Come già
in Costa Rica, Haiti e Perù anche qui il 2 luglio 2006 finisce con
un risultato all’incollatura dopo un conteggio estenuante, manifestazioni
di protesta e accuse di brogli. Ma prevale Calderón, col 35,89 per
cento contro il 35,31 (qui basta invece anche la maggioranza relativa),
dopo che il rivale era stato per mesi costantemente in testa ai sondaggi.
E quando gli osservatori chavisti a differenza di quelli dell’ue obiettano
sulla correttezza del voto il vincitore ironizza: «Meno male che Chávez
diceva di non avere nulla a che fare con López Calderon!».
Ha comunque offerto al prd di partecipare a un governo di unità nazionale,
scontrandosi con un rifiuto.
Ma lo stesso 2 luglio 2006 si vota anche in Bolivia, per un’Assemblea
Costituente che Morales ha voluto fortemente. E anche lì il “fattore
Ch” usato massicciamente dall’opposizione in campagna elettorale
ha qualche effetto: il mas non ottiene infatti i due terzi dei seggi cui
puntava, ma conferma sostanzialmente il poco più della maggioranza
assoluta delle politiche. E i quattro dipartimenti più ricchi del
paese, contro le indicazioni del presidente, votano pure “sì”
a un referendum sulla devolution che agli occhi di un italiano assume un
curioso sapore leghista. Insomma, Morales è sempre forte, ma non
onnipotente.
A questo punto, si annunciano
tre mesi di pausa. Il primo ottobre del 2006 si riprende in Brasile, dove
la popolarità di Lula sembra più forte degli scandali del
suo partito, e dove la riconferma del presidente è probabile. Ma
come abbiamo visto Lula sta tessendo una sua tela per ridimensionare Chávez,
pur senza isolarlo, mentre Chávez sponsorizza i “movimenti
sociali” che a Lula creano problemi. A ruota vota il 15 ottobre 2006
l’Ecuador, dove con Lucio Gutiérrez un Chávez o Humala
locale è già fallito. In compenso l’ex ministro dell’Agricoltura,
antropologo e presidente del sindacato indigenista conaie Luis Macas si
avvicina come profilo a Morales. Ma sia la conaie che il partito indigenista
Pachakutik sono famosi per la loro rissosità interna, e stanno già
mettendo la sua candidatura in difficoltà. È presumibile comunque
una corsa a tre alla peruviana, col sindaco di Guayaquil Jaime Nebot nel
ruolo della Flores e l’ex socialista ed ex vicepresidente León
Roldós Aguilera che dopo aver creato un partito fai-da-te sta delineando
un’evoluzione simile a quella del nuovo García. In passato
era infatti considerato filo-Chávez, ma ora dice di sentirsi anche
lui più vicino a Lula, e di voler mantenere buone relazioni sia con
Washington che con Caracas.
Il “fattore Ch” colpisce invece in pieno in Nicaragua, dove
si vota il 5 novembre, in un quadro dominato dalle personalità discusse
di due ex presidenti: il liberale Arnaldo Alemán, che è finito
in galera per corruzione, e il sandinista Daniel Ortega, che ha rischiato
di finirci per molestie sessuali alla figliastra. Contro il “ladro”
e “il pedofilo” sono dunque cresciute le candidature dell’ex
sindaco di Managua Herty Lewites, che Ortega ha fatto espellere dal Fronte
sandinista, e dell’ex ministro degli Esteri, Eduardo Montealegre,
che Alemán ha fatto espellere dal Partito liberale. E all’inizio
è stato Lewites a partire in testa. Ma poi Chávez ha iniziato
ad appoggiare massicciamente Ortega, anche con forniture di petrolio ai
sindaci sandinisti. E con il calo delle intenzioni di voto per Lewites è
passato in testa prima Montealegre, poi lo stesso Ortega, mentre arranca
in fondo il candidato di Alemán, José Rizo. Anche contro Ortega
i due liberali avevano comunque iniziato ad agitare l’accusa di chavismo,
e al momento del voto in Messico i due liberali assieme stavano al 43,6
per cento (26,5 di Montealegre e 17,1 di Rizo) contro il 42,2 dei due sandinisti
(28 per cento di Ortega e 14,8 di Lewites). Proprio in quello stesso fatidico
2 luglio Lewites è però improvvisamente deceduto, e non è
molto probabile che il candidato a lui sostituito dal suo movimento conservi
i suoi consensi. Per essere eletti presidenti basta la maggioranza relativa.
A questo punto, come
si è detto, il 3 dicembre si tornerà al voto nello stesso
Venezuela, dove l’opposizione è stata tentata di ripetere il
boicottaggio, ma dove d’altra parte Chávez ha cercato in molti
modi di ottenere un flusso alle urne e una gamma di candidati tale da rendere
le consultazioni credibili. Ha alternato infatti le pressioni sugli elettori
con le minacce all’opposizione di indire un referendum per “restare
fino al 2031” se sarà il solo a presentarsi, ma anche con blandizie
a chi accetterà di presentarsi. Alla fine, l’opposizione ha
scartato l’ipotesi di primarie, per trovare una formula in grado di
mettere assieme i tre nomi opiù gettonati. Candidato alla presidenza
sarà dunque Manuel Rosales, governatore di quello Stato Zulia che
assieme a quello insulare di Neva Esparta è al momento l’unico
non governato dai chavisti, ma che al contempo è anche la principale
cassaforte petrolifera del paese: proveniente dal partito socialdemocratico
di Azione democratica ma ultimamente alla testa di una formazione localista,
è l'unico leader che può dire di aver sconfitto i chavisti
per ben due volte, e il suo Stato vide anche la vittoria del sì al
referendum revocatorio del 2004. Candidato alla vicepresidenza sarà
Julio Borges, leader di un partito moderato che si chiama Primero Justicia
e che è nato proprio nella lotta contro Chávez. “Direttore
generale della strategia” sarà infine Teodoro Petkoff, ex guerrigliero
protagonista in gioventù di spettacolari azioni e evasioni, che è
stato poi un teorico del revisionismo antisovietico, un leader e candidato
presidenziale dell’estrema sinistra, un ministro privatizzatore e
un direttore di giornale: visto con antipatia d’altronde ricambiata
da gran parte dell’opposizione ma rispettato nella sinistra internazionale,
con forti simpatie nei ds italiani, per controbattere l’uso clientelare
che Chávez fa della rendita petrolifera ha fatto la proposta di sapore
libertarian di redistribuire gli utili direttamente a ogni cittadino attraverso
buoni. Si è però candidato ufficialmente anche il comico Benjamin
Rausseo, in arte El Conde del Guácharo, appoggiato dai due “comandi”
Pechuga e Rumbero (= “Tette” e “Casinaro” e dal
suo nuovo Partito Indipendente Elettorale di Risposta Avanzata (P.i.e.d.r.a.:
"¡Bota piedra!" in spagnolo del Venezuela sta per “non
rompere le balle” o simili, e quindi una sigla del genere suona come
in italiano un “B.a.l.l.e”). Accompagnato da un corteggio di
capre e somari, ha criticato la polarizzazione tra chavisti e antichavisti,
ha detto che Chávez può considerarsi licenziato, e dopo aver
camminato 300 metri verso il palazzo presidenziale ha commentato: «Sono
già più vicino a Miraflores». L'ultimissimo sondaggio
al momento di chiusura di questo articolo gli dà il 6,2 per cento
delle intenzioni di voto, contro il 19,3 di Rosales e il 56,8 di Chávez.
Maurizio Stefanini, giornalista e saggista collabora con Il Foglio e il Giornale. È esperto di America Latina.
(c)
Ideazione.com (2006)
Home
Page
Rivista | In
edicola | Arretrati
| Editoriali
| Feuilleton
| La biblioteca
di Babele | Ideazione
Daily
Emporion | Ultimo
numero | Arretrati
Fondazione | Home
Page | Osservatorio
sul Mezzogiorno | Osservatorio
sull'Energia | Convegni
| Libri
Network | Italiano
| Internazionale
Redazione | Chi
siamo | Contatti
| Abbonamenti|
L'archivio
di Ideazione.com 2001-2006