Claudio
Velardi è una delle porte di accesso più referenziate al micromondo
del lobbismo italiano. Una di quelle figure genuinamente complesse, un esempio
calzante e vestito di lobbista “impuro”, da anni uscito dal
porto franco delle ideologie per navigare nella politica per ciò
che è: über alles, un gioco tra interessi contrapposti. Quello
che, nella tradizione pluralista, con Robert Dahl si definisce pluralismo
competitivo. Meglio d’ogni altra cosa lo dimostra un suo breve excursus
biografico: comunista in gioventù, scala il pci fino a vestire alla
fine degli anni Novanta la divisa di capostaff di Massimo D’Alema
a Palazzo Chigi, e dunque caposquadra dell’ormai leggendaria crew
dei “Lothar” dalemiani. Nel 2000 fonda Reti, che orgogliosamente
definisce «la prima vera e trasparente agenzia di lobbismo italiano».
Sede nello stesso palazzo del quartier generale berlusconiano di via del
Plebiscito, con terrazza mozzafiato. I simboli contano. Come il suo portafoglio
di clienti: Enel, Telecom, Fastweb, Autostrade, Sky, aziende delle telecomunicazioni
e delle nuove tecnologie.
Nel 2001 è la volta di Running, agenzia di comunicazione pubblica
e politica, che sforna campagne per candidati d’ogni taglia e schieramento
e un master che, anno dopo anno, sta formando una piccola classe di comunicatori
politici professionisti.
Nel 2002, invece, Velardi fonda il Riformista e con Antonio Polito dà
vita a una piacevole avventura di giornalismo corsaro e sfacciatamente trasversale,
oggi abbandonata a favore di un nuovo progetto annunciato qualche tempo
fa in un’intervista a Barbara Palombelli sul Corriere della Sera:
un web-channel interamente dedicato alle istituzioni. «Il nostro obiettivo»
spiega «è quello di trattare in un formato giornalistico il
linguaggio delle istituzioni a ogni livello, in modo da garantirne la più
ampia diffusione. In un certo senso si tratta di “tradurre”
quel linguaggio per rendere accessibile, in modalità soprattutto
video, tutte le attività sia delle istituzioni rappresentative, dal
Parlamento agli Enti locali, sia di quelle non rappresentative, come la
Corte Costituzionale o le varie autorità, che vengono oggi percepite
dall’opinione pubblica come luoghi accessibili solo a chi ne conosce
i codici e gli stili “esoterici”».
Ecco, in tema di esoterismo, cominciamo ad affrontare il regno delle “arti
oscure” del lobbismo: è la stessa cosa parlare di pubbliche
relazioni?
Per niente.
Spieghiamolo.
È molto semplice. Mentre nelle pubbliche relazioni si fa da intermediari,
proprio attraverso un sistema relazionale, tra diversi soggetti, nel caso
del lobbismo propriamente inteso si fa un passo in più. Noi rappresentiamo
aziende alle quali, per prima cosa, chiediamo di esporre la questione per
cui si rivolgono a noi. Così creiamo una strategia di intervento
nei rapporti con le istituzioni, un “percorso mirato” per risolvere
il problema del nostro cliente, non solo individuando una pista da percorrere
ma discutendo – e talvolta eccependo – la natura dei problemi.
Mi spiego: prima di trasformare in una strategia d’azione la richiesta
di un’azienda, ne accertiamo la plausibilità, in entrata, e
ne moduliamo il contenuto. Per questo chi lavora con Reti deve avere una
preparazione culturale solidissima.
Ovvero?
Il servizio base che offriamo come prodotto industriale è il monitoraggio
quotidiano di tutte le attività istituzionali che interessano il
nostro cliente, e che gli presentiamo sotto forma di resoconto. Poi elaboriamo
un progetto di intervento, un insieme di strategie che ci consentano di
portare a casa il risultato voluto: un contatto “importante”,
un canale di dialogo per modificare un testo legislativo e così via.
Ha parlato di “prodotto industriale”. In termini più
ampi, esiste oggi una vera e propria industria del lobbismo che opera nel
nostro paese?
Sinceramente, penso di no. Chiariamoci: insieme a quello più noto,
il lobbismo è uno dei lavori più antichi al mondo. Tutti quanti
siamo lobbisti, pure a casa nostra: io, per esempio, faccio il lobbista
di mio figlio intercedendo su mia moglie, con una serie di argomentazioni,
per convincerla ad aumentargli la paghetta settimanale. Insomma, si fa lobbismo
ogni volta che si lavora per far prevalere le proprie ragioni. Quando diventa
la tua fonte di reddito, ecco che sei un lobbista vero e proprio. Noi facciamo
quest’attività in maniera industriale e trasparente, altri
– legittimamente, per carità – in modo meno professionale.
Meno moderno.
Cioè scambiano il lobbista per un oscuro “inciucione”?
Più o meno. Prenda il Parlamento: è pieno di lobbisti. O di
tantissimi studi legali che, a differenza di ciò che avviene negli
Stati Uniti, agiscono come tali senza però dichiararlo pubblicamente.
Perché, e veniamo al punto, in Italia sopravvive una retorica negativa
del lobbismo. “Lobbista uguale tipo poco raccomandabile” che
tratta in segreto affari che spesso superano il limite della legalità.
C’è un’antichissima e radicatissima ostilità per
il lobbismo in quanto tale. E ancor di più una terribile ipocrisia.
Il lobbismo, lo ripeto, c’è sempre stato, solo che fino a pochi
anni fa questo genere di attività era strutturato all’interno
dei più grandi agenti di lobbismo mai presenti nel nostro paese:
i partiti, gli agenti del lobbismo nel Novecento, che si regolavano attorno
alle dinamiche della lotta di classe.
La classe operaia va dal consulente?
Il paradosso c’è, anche se meno stridente se buttiamo via le
lenti distorcenti dell’ideologia. Siamo sinceri: fino a una ventina
d’anni fa la classe operaia aveva il suo lobbista di riferimento,
il pci e il sindacato, la Coldiretti eleggeva direttamente i propri rappresentanti
nelle fila della dc. Ma anche Enrico Mattei o la Fiat riuscivano a far entrare
in Parlamento dei propri “agenti di rappresentanza”. Bastava
non dirlo, condire tutto con una spruzzatina di ipocrisia sull’interesse
generale e il gioco era fatto. Poi, quando la nostra società s’è
modernizzata e il contenitore-partito si è rivelato insufficiente
per rappresentarne la complessità, gli interessi sono emersi in maniera
più nitida. Questa è una delle conseguenze della laicizzazione
della vita pubblica. Meno ideologia e più interessi. O meglio: meno
retorica ideologica e più attenzione alle reali dinamiche sottostanti
la politica.
Par di capire che il lobbismo “dichiarato” è un’invenzione
della Seconda Repubblica.
Direi di sì, in un processo che da una marcata frammentazione dei
processi si sta via via evolvendo verso una loro professionalizzazione.
Con il solito handicap di partenza da un punto di vista terminologico: il
lobbismo come sinonimo di un’attività che confina pericolosamente
con l’illecito. È che continuiamo a confondere, i giornalisti
per primi, “lobby” e “corporazioni”.
Distinguiamo.
È semplicissimo. Prendiamo ad esempio il decreto Bersani sulle liberalizzazioni.
Tutti l’hanno presentato come il punto di partenza di una battaglia
contro le “lobby”. Mentre bisognava scrivere che si tratta di
una battaglia contro le corporazioni. Ovvero contro interessi strutturati
e corazzati spesso in maniera non legittima. Il sistema neocorporativo italiano,
che abbiamo ereditato dal fascismo, è legato all’idea di una
società chiusa, strutturata per “pilastri” – i
notai, gli avvocati, i giornalisti, i tassisti, i farmacisti e chi più
ne ha più ne metta. Tu non entri in un gruppo di interesse, ma in
una casta a cui aderisci per la vita e per la morte, il cui scopo è
quello di perpetrare nel tempo un sistema di privilegi, il monopolio delle
regole d’accesso. La lobby è tutt’altro, come il lobbismo:
interessi trasparenti. Trasversali. Propri di una società di mercato.
Facciamo un esempio di lobby potente ma non corporativa.
Lo prendo non dai nostri clienti. L’Eni, un’azienda che riesce
bene a fare lobbismo in campo nazionale e internazionale attraverso una
propria struttura interna. E difende come si deve i suoi interessi, senza
barare o falsare le regole del gioco. In maniera professionale. Capito?
Esattamente l’opposto di quello che immaginano gli apologeti della
società corporativa.
Ma abbiamo detto che anche in Italia, come altrove, il lobbismo è
sempre esistito.
È sempre esistito ma in una forma perversa. Prendiamo l’idealtipo
– se così lo possiamo chiamare – del lobbista italiano.
Noi formiamo giovani con una consistente preparazione giuridica, trentenni
che in due giorni sono in grado di prospettare a un’azienda un’efficace
strategia d’azione per il problema che ci viene sottoposto. E i trentenni
che formiamo fanno i lobbisti di professione, dichiarati. Il tradizionale
lobbista all’italiana, invece, è un uomo del sottobosco governativo
che, nell’Italia della Prima Repubblica, veniva “comprato”
da qualche azienda che utilizzava la sua rete di conoscenze e le sue entrature
per promuovere, sempre nei fumi del retrobottega, in maniera non trasparente,
i propri interessi. Il Transatlantico è pieno di gente con il tesserino
d’accesso che non ne ha i requisiti, perché non sono né
parlamentari né ex parlamentari né giornalisti accreditati.
Ogni tanto qualche presidente della Camera ha provato a cacciarli, a far
fuori questo genere di traffichini – perché di questo in realtà
si tratta – ma sono come un potentissimo virus: non lo debelli.
Non saranno tutti così, i lobbisti italiani.
Naturalmente. Poi ci sono le piccole minoranze. I grandi consulenti alla
Guido Rossi, che intervengono quando bisogna concludere una grande operazione
di mergering finanziario. Ma sono pochissimi e, soprattutto, non accettano
la qualifica di lobbisti. Ancora, ci sono gli ex parlamentari che per campare
si mettono al servizio di qualche azienda, ma interpretano il loro mestiere
di lobbisti con la puzza sotto il naso, come un mero e poco onorevole espediente
per sopravvivere. Da ultimi, ci sono i parlamentari eletti, i parlamentari
“classici”, come il deputato che entra nelle istituzioni perché
espressione dei cacciatori o degli ambientalisti, gruppi di pressione che
gli forniscono le risorse. E lì è normale che si spendano
per promuovere le ragioni delle associazioni e degli interessi di cui sono
espressione.
Sarebbe bello, però, se lo dichiarassero esplicitamente.
D’accordissimo. Ho anche uno slogan: il lobbismo è la fine
delle ipocrisie.
È per questo che non esiste nel nostro paese una legislazione che
regoli le attività di lobbismo?
E meno male!
Ma come! Non dovrebbe essere contento per primo lei stesso di un riconoscimento
per via legislativa della sua attività?
Se fosse questo, sì. Ma fino a oggi nel nostro paese hanno provato
a fare il contrario: tutte le proposte di intervento legislativo sul tema
del lobbismo sono state avanzate “in negativo”. Vale a dire
per impedire o mettere barriere al lobbismo. Ma torniamo al punto di partenza:
la classe politica vuole conservare per sé i privilegi non dichiarati
dell’attività di lobbying. Oppure continua a intendere, soprattutto
a sinistra, il lobbismo come un’attività coperta da un pericoloso
velo di opacità. Poi se glielo vai a spiegare che non è così,
alla fine capiscono. E per fortuna, i tentativi di “criminalizzare”
il lobbismo sono stati bloccati.
È meglio
il far west di oggi, allora?
Nemmeno quello, certamente. Tant’è che già a partire
dalla scorsa legislatura abbiamo lavorato perché venga creato, presso
tutte le istituzioni, un “Registro delle attività di lobbying”.
Un meccanismo semplice e trasparente, che permetta di far emergere quel
reticolo di rapporti, influenze, ingerenze – perché ci sono
anche quelle – quel terreno pulviscolare di attività che avvengono
e si creano dentro e attorno alle istituzioni. È una battaglia civile
che abbiamo già ripreso. E contiamo di vincere. Altrimenti, che lobbisti
saremmo?
Claudio Velardi, presidente della società Reti.
Angelo Mellone, giornalista, ricercatore di Comunicazione politica.
(c)
Ideazione.com (2006)
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