La
mattina dell’11 marzo 2004, nell’orario di maggior traffico
di pendolari, dieci bombe esplosero all’interno di quattro stazioni
ferroviarie di Madrid e negli immediati dintorni. Quasi 200 spagnoli restarono
uccisi e circa 2000 feriti. Il giorno successivo sembrava che la Spagna
avesse preso una posizione netta contro il terrorismo, con manifestanti
che in tutto il paese esibivano cartelli con scritto “assassini”
o “criminali”. Ma la situazione non ha retto. Settantadue ore
dopo che le bombe avevano sparpagliato braccia, gambe, teste e altre parti
di corpi per tre stazioni ferroviarie e un piazzale di manovra, il governo
spagnolo di José María Aznar, un solido alleato degli Stati
Uniti e della Gran Bretagna in Iraq, fu sonoramente sconfitto in un’elezione
che l’opposizione socialista aveva a lungo tentato di trasformare
in un referendum sul ruolo spagnolo nella guerra al terrorismo. Così
come, evidentemente, hanno fatto gli uomini di al Qaeda che hanno piazzato
le bombe. Un documento di al Qaeda di 54 pagine, venuto alla luce tre mesi
dopo gli attentati, sosteneva che il governo di Aznar non avrebbe «sopportato
più di due o tre attentati prima di ritirarsi [dall’Iraq] per
la pressione della sua opinione pubblica». In realtà ne è
bastato uno solo – così come per i soldati spagnoli in Iraq
che sono stati richiamati poco dopo, proprio come aveva promesso il neoeletto
primo ministro, José Luis Rodríguez Zapatero, il giorno dopo
che gli spagnoli avevano scelto l’appeasement.
Quest’anno, cinque giorni prima del secondo anniversario degli attentati
di Madrid, il governo Zapatero, che aveva già legalizzato il matrimonio
fra partner dello stesso sesso, l’adozione da parte delle coppie omosessuali
e cercava di limitare l’educazione religiosa nelle scuole spagnole,
ha annunciato che le parole “padre” e “madre” sarebbero
scomparse dai certificati di nascita spagnoli. Secondo il bollettino ufficiale
del governo, invece, «l’espressione “padre” sarà
sostituita da “Progenitore A” e “madre” sarà
sostituita da “Progenitore B”». Come il capo del Registro
Civile Nazionale ha spiegato al quotidiano madrileno ABC, il cambiamento
si limiterebbe ad adeguare i certificati di nascita spagnoli alla legislazione
spagnola sul matrimonio e l’adozione. Più acutamente, l’editorialista
irlandese David Quinn ha visto nella nuova regolamentazione «l’abolizione
del riconoscimento statale del ruolo delle madri e dei padri e l’estinzione
della biologia e della natura». Queste norme ridicole sono state ritirate
in seguito alle proteste dell’opinione pubblica, ma l’originaria
intenzione del governo rimane sintomatica.
A prima vista gli attentati di Madrid e il linguaggio propagandistico di
“Progenitore A” e “Progenitore B” sembrerebbero
accomunati solo dalle stravaganze della politica elettorale: gli attentati
hanno aggravato il dissenso contro un governo conservatore, determinando
la vittoria di un primo ministro di sinistra, che poi ha iniziato a fare
molte delle cose che i governi aggressivamente laici in passato avevano
cercato di fare in Spagna. Il collegamento fra le due cose, però,
è più complesso. Gli eventi spagnoli degli ultimi due anni,
infatti, sono un microcosmo delle due guerre culturali, collegate fra loro,
oggi in corso nell’Europa occidentale.
La prima di queste guerre – seguendo l’esempio dei certificati
di nascita spagnoli, chiamiamola “Guerra culturale A” –
è una forma più acuta della contrapposizione fra Stati rossi
e blu che esiste in America: una guerra fra le forze post-moderne del relativismo
morale e i difensori dei convincimenti morali tradizionali. La seconda –
la “Guerra culturale B” – è la lotta per definire
la natura della società civile, il significato della tolleranza e
del pluralismo e i limiti del multiculturalismo in un’Europa che invecchia
e i cui bassi tassi di natalità hanno aperto le porte a una popolazione
musulmana aggressiva e in rapida crescita.
Nella Guerra culturale A gli aggressori sono i laici estremisti, spinti
da quella che lo studioso Joseph Weiler ha chiamato “Cristofobia”.
Cercano di cancellare l’eredità della cultura giudaico-cristiana
europea da un’Unione Europea post-cristiana, chiedendo il matrimonio
fra persone dello stesso sesso in nome dell’uguaglianza, limitando
la libertà di parola in nome della civiltà e abrogando alcuni
aspetti essenziali della libertà religiosa in nome della tolleranza.
Nella Guerra culturale B gli aggressori sono i musulmani jihadisti estremisti
che disprezzano l’Occidente, vogliono imporre i tabù islamici
alle società occidentali con proteste violente e altre forme di coercizione
se necessario, e che considerano queste operazioni la prima fase della islamizzazione
dell’Europa – o, nel caso di quella che spesso chiamano al-Andalus
– della restaurazione del corretto ordine delle cose, momentaneamente
rovesciato nel 1942 da Ferdinando e Isabella.
La domanda che l’Europa deve porsi, ma che non sembra volere affrontare,
è se gli aggressori della Guerra culturale A non abbiano reso molto
difficile che le forze della vera tolleranza e dell’autentica società
civile possano vincere nella Guerra culturale B.
Gli eccessi ideologici del politicamente corretto
La “depoliticizzazione” apatica, come l’hanno chiamata
alcuni analisti, in cui è scivolata l’Europa occidentale sembrava
un tempo una questione fatta di politiche sociali, di economia socialista
e di politiche commerciali protezionistiche condite da irritanti regolamentazioni
europee che si applicavano a tutto, dalla circonferenza dei pomodori all’allevamento
delle pecore sarde. E infatti non c’è stata tregua nell’apparente
determinazione dell’Europa a vincolarsi sempre più con le corde
della regolamentazione burocratica. Così chi visitava la Polonia
dopo che, nel 2004, era entrata nell’Unione Europea non poteva fare
a meno di notare che ora su ogni uovo venduto nei negozi polacchi era impresso
il codice numerico europeo, e che ogni pecora polacca aveva una targhetta
ufficiale europea pinzata ad un orecchio. Poi c’è la regolamentazione
del Grande Fratello del posto di lavoro. L’anno scorso, grazie alla
direttiva europea n. 6 riguardante chi lavora a determinate altezze, gli
elettricisti di Eccles, un paese nel Suffolk, non hanno potuto usare una
scala per cambiare cinque lampadine nel soffitto della chiesa di San Benet.
Ci sono voluti due giorni di lavoro per costruire un’impalcatura e
alla fine ogni lampadina è venuta a costare circa 500 dollari.
Cosa c’entra tutto questo con la Guerra culturale A? Il fatto è
che anche se le passioni normative europee continuano ad avere conseguenze
economiche deleterie, si è arrivati a un eccesso ideologico non ultimo
quando entra in gioco la religione. Lo scorso ottobre, per esempio, i custodi
ufficiali dell’integrità ortografica olandese hanno decretato
che, a partire dall’agosto del 2006, “Cristo” si dovrà
scrivere con la “c” minuscola, mentre “Joden” (ebrei)
si scriverà con la “j” maiuscola quando indica la nazionalità
e quella minuscola quando indica i membri di una religione. Un po’
di tempo fa un insegnante di matematica ateo in Scozia ha vinto una causa
anti-discriminazione, sostenendo che la sua domanda per un “posto
di assistenza pastorale” in una scuola cattolica era stata respinta
perché era una posizione riservata ai cattolici.
In parte, quindi, la Guerra culturale A rappresenta un chiaro tentativo
da parte dei laicisti, tramite meccanismi normativi nazionali ed europei,
di marginalizzare la presenza e l’impatto sull’opinione pubblica
dei cristiani praticanti in Europa, che sono sempre meno. A questo si ricollegano
questioni cruciali sull’inizio e la fine della vita, poste in maniera
particolarmente acuta nei Paesi Bassi, non più vincolati dalla tradizione.
L’Olanda per molto tempo ha avuto la reputazione di paese libertino
con droga e prostituzione legalizzate, mentre guidava l’Europa lungo
il percorso dell’eutanasia e del matrimonio omosessuale. Ora i belgi,
una volta imperturbabili, sembrano decisi a recuperare il terreno perduto.
Oltre ad aver eguagliato i vicini olandesi nell’ammettere il matrimonio
omosessuale e l’eutanasia – nelle Fiandre fra il 1999 e il 2000,
metà delle morti infantili sono state per eutanasia – la coalizione
socialista/liberale di governo permette la procreazione con l’utero
in affitto. Come ha affermato il filosofo ed ex ministro italiano Rocco
Buttiglione, «una volta citavamo Marx che protestava per l’“alienazione”,
l’“oggettificazione” e la “commercializzazione”
della vita umana. È possibile che oggi la sinistra stia inserendo
nella sua bandiera proprio il diritto a commercializzare gli esseri umani»
– e tutto in nome della tolleranza e dell’uguaglianza?
La Guerra culturale A si esprime anche negli sforzi di imporre comportamenti
giudicati progressisti, compassionevoli, scevri da giudizio o politicamente
corretti in termini di femminismo estremo o multiculturalismo. Ultimamente
questo si è tradotto in una regolamentazione, praticamente una restrizione,
della libertà di espressione da parte dell’Unione Europea.
Commenti moralmente critici sui comportamenti omosessuali, per esempio,
sono stati definiti “parole di odio” e un parlamentare francese
è stato multato per aver detto che l’eterosessualità
è moralmente superiore all’omosessualità.
A livello transnazionale, le pressioni dell’Unione Europea hanno recentemente
fatto cadere la coalizione di governo in uno dei nuovi paesi membri, la
Slovacchia. Il problema era un concordato con il Vaticano che prevedeva
che la Slovacchia rispettasse la decisione di quei medici che, per loro
convinzioni morali, decidono di non compiere aborti. Questa disposizione
è stata duramente attaccata dal Network of Independent Experts of
Fundamental Human Rights, il quale sostiene che il diritto di abortire è
un diritto umano internazionale e che, quindi, non si può consentire
ai medici di astenersi dalla procedura. Il dibattito che ne è seguito
sui rischi di offendere i mandarini dei diritti umani a Bruxelles o a Strasburgo
ha destabilizzato il governo di Bratislava al punto che il primo ministro
ha dovuto sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni.
Questo strisciante autoritarismo nella risoluzione del Parlamento europeo
di gennaio del 2006, condannava come “omofobi” quegli Stati
che non riconoscono il matrimonio omosessuale e definiscono la libertà
religiosa “fonte di discriminazione”. Durante il dibattito su
quella risoluzione, un europarlamentare britannico, equiparando le leggi
tradizionali sul matrimonio ad una “violazione dei diritti umani dei
gay e delle lesbiche”, ha proposto di sospendere l’adesione
all’ue di quei paesi che dissentivano, come la Polonia e la Lituania.
Alla Polonia era stata minacciata anche la sospensione del diritto di voto
negli incontri ministeriali europei, se avesse reintrodotto la pena di morte.
Il
suicidio demografico dell’Europa
Qualsiasi cosa si possa aggiungere su questi sviluppi, il fatto che l’Europa,
in questo particolare momento storico, si trovi coinvolta in un acerrimo
conflitto per imporre per legge il politicamente corretto, deve sembrare
anche ai più benevoli osservatori come un bizzarro tentativo di sviare
l’attenzione dall’avvenimento drammatico che coinvolge il continente
in questo inizio di Ventunesimo secolo: l’Europa sta commettendo un
suicidio demografico ormai da un po’ di tempo. Alla fine del Ventesimo
secolo alcuni ambientalisti estremisti avevano previsto con sicurezza che,
mentre nel mondo si sarebbero esaurite varie risorse – oro, zinco,
stagno, mercurio, petrolio, rame, piombo, gas naturale e così via
– l’umanità sarebbe stata schiacciata da una esuberante
“sovrappopolazione”. All’inizio del Ventunesimo secolo
il mondo è ancora pieno zeppo di risorse naturali. L’Europa,
però, sta esaurendo la più cruciale delle risorse: le persone.
Il quadro generale è abbastanza preoccupante. Non c’è
un singolo paese che abbia tassi di fertilità abbastanza alti, cioè
pari al 2,1 bambini per donna, il tasso necessario per mantenere una popolazione
stabile. Inoltre undici paesi – fra cui Germania, Austria, Italia,
Ungheria e i tre paesi Baltici – hanno “incrementi naturali
negativi” (cioè più morti che nascite all’anno),
un chiaro passo in discesa nella spirale della morte demografica.
Questi dati sono abbastanza impressionanti nel complesso. Ma il diavolo
è nei dettagli che illustrano graficamente cosa succede quando un
continente più in salute, più ricco e più sicuro che
mai, non riesce a produrre il futuro umano nel senso più elementare.
Così, salvo improvvisi capovolgimenti, gli stessi belgi che adottano
forme sempre più avanzate di politicamente corretto, nel 2020 vedranno
la loro popolazione ridotta a 7 milioni di persone; a metà del secolo
potranno essere appena 4 milioni e mezzo di persone. Nel 2050 gli spagnoli,
il cui governo sta ferventemente smantellando la vita sociale e culturale
tradizionale, potrebbero vedere una diminuzione della loro popolazione del
25 per cento.
In Germania né durante la campagna elettorale, né dopo con
l’insediamento del governo democratico cristiano di Angela Merkel,
è stato affrontato il problema incombente del sistema sanitario e
pensionistico statale tedesco, in cui un numero sempre minore di lavoratori
contribuenti deve sostenere un numero sempre crescente di pensionati. Contemporaneamente,
grazie agli stessi trend demografici, entro la metà del secolo probabilmente
la Germania perderà l’equivalente dell’intera popolazione
dell’ex Germania dell’Est. Sebbene il presidente tedesco Horst
Köhler si sia speso pubblicamente per aumentare il tasso di crescita
del paese, ora pari a 1,39 un sondaggio recente indica che il 25 per cento
dei ragazzi e il 20 per cento delle ragazze fra i venti e i trent’anni
non intende avere figli – e la reputa una scelta del tutto legittima.
Poi c’è l’Italia, le cui grandi famiglie allargate sono
state per lungo tempo un ingrediente dell’immaginario mondiale. Ma
la realtà è molto diversa: in base ai trend attuali, nel 2050
quasi il 60 per cento degli italiani non saprà cosa vuol dire avere
un fratello, una sorella, una zia, uno zio o un cugino. Ma forse non è
una cosa sorprendente in un paese in cui l’età media di un
uomo alla nascita del suo primo figlio è di 33 anni e le persone
con più di 65 anni sono molte di più di quelle con meno di
15 anni. (Anche in Germania, Spagna, Portogallo e Grecia la popolazione
con più di 65 anni supera quella con meno di 15 anni). Né
il fenomeno disastroso è limitato alla “Vecchia Europa”;
si prevede che nel 2050 la popolazione della Bulgaria diminuirà del
36 per cento e quella dell’Estonia del 52 per cento.
Nel prossimo quarto di secolo in Europa il totale dei lavoratori diminuirà
del 7 per cento, mentre il numero degli ultra sessantacinquenni aumenterà
del 50 per cento, tendenze che produrranno difficoltà fiscali intollerabili
per il welfare state di tutto il Continente. I conseguenti dissidi intergenerazionali
metteranno sotto forte pressione le politiche nazionali, pressioni che potrebbero,
in molti modi, liquidare definitivamente il progetto di “Europa”
come era stato concepito sin dai tempi dell’istituzione, nel 1952,
della Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio, il predecessore
istituzionale dell’attuale Unione Europea. La demografia è
un destino, e le demografie del declino europee – mai viste nella
storia dell’umanità in assenza di guerre, epidemie e catastrofi
naturali – stanno creando inevitabili enormi problemi.
L’immigrazione
musulmana colma il vuoto demografico europeo
Ancora più profeticamente, la caduta libera demografica dell’Europa
rappresenta il legame fra la Guerra Culturale A e la Guerra Culturale B.
La storia aborre i vuoti e il vuoto demografico, creato dai tassi di crescita
autodistruttivi europei, viene colmato ormai da diverse generazioni, da
una massiccia immigrazione proveniente da tutto il mondo islamico. Chiunque
si sia preso la briga di dare uno sguardo, avrà notato che gli effetti
più immediati di questa immigrazione sono ben visibili nel panorama
urbano sempre più segregato dell’Europa continentale, dove
normalmente una periferia suburbana povera e musulmana circonda un cuore
urbano europeo benestante.
Ma il cambiamento va ben oltre l’apparenza delle aree metropolitane
europee. In Francia esistono dozzine di aree “ingovernabili”:
sobborghi in gran parte dominati dai musulmani, dove la legge francese non
vale e la polizia francese non entra. Anche in altri paesi europei si possono
trovare tali enclave extraterritoriali, dove chierici musulmani locali applicano
la legge della sharia. Inoltre, come Bruce Bawer illustra dettagliatamente
nel suo nuovo libro, While Europe slept, le autorità europee si curano
poco o per niente delle pratiche della loro popolazione musulmana che sono
fisicamente crudeli (la circoncisione femminile), moralmente crudeli (i
matrimoni combinati e imposti), socialmente dannosi (come rimandare i bambini
musulmani nelle madrasse estremiste del Medio Oriente, del Nord Africa o
del Pakistan per l’istruzione primaria e secondaria ) e illegali (i
delitti di “onore” in caso di adulterio o di stupro –
dove è la vittima dello stupro che viene uccisa).
In realtà il problema non è solo che i governi europei scelgono
di chiudere un occhio davanti a queste cose. I sistemi di welfare europei
sostengono generosamente immigrati che disprezzano i paesi che li ospitano
e che si rivoltano con violenza contro di loro – per esempio nel caso
degli attentati alla metropolitana e agli autobus di Londra del 7 luglio
del 2005. Come Melanie Phillips scrive in Londonistan, gli attentatori di
Londra erano «ragazzi britannici, il prodotto di scuole e università
britanniche e dello Stato sociale britannico, che con il loro comportamento
hanno ripudiato non solo i valori britannici, ma i più elementari
codici di umanità. Né erano dei pazzi solitari. Quello che
li ha spinti ad entrare nella metropolitana con i loro zaini e a far esplodere
se stessi e i loro concittadini è stata un’ideologia che si
è diffusa come un cancro non solo nelle madrasse del Pakistan, ma
nelle strade di Leeds e Bradford, Oldham e Leicester, Glasgow e Luton».
Come se non bastasse, grazie alla liberalità delle leggi penali europee,
i criminali musulmani sediziosi vengono spesso trattati in maniere che ricordano
il mondo della Regina Rossa e dei suoi “impossibile prima di colazione”.
Così Mohammed Bouyeru, l’olandese-marocchino che nel 2004 ha
ucciso il regista Theo van Gogh in una strada di Amsterdam e poi ha affisso
la sua fatwa personale al petto della vittima con un coltello da cucina,
mantiene il diritto di voto e potrebbe, se volesse, candidarsi al Parlamento
olandese. Nel frattempo, almeno due parlamentari olandesi che criticavano
l’estremismo islamico, essendo stati oggetto di minacce da parte di
musulmani sono stati costretti a vivere in prigioni o in caserme dell’esercito
sotto tutela della polizia o dei militari.
Sessant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’istinto
di pacificazione europeo è vivo e vegeto. Le piscine pubbliche francesi
sono state divise per sesso in seguito alle proteste musulmane. Le tazze
con “Piglet” [personaggio dei cartoni animati raffigurante un
maialino, ndt] sono scomparse da alcuni negozi britannici dopo che i musulmani
avevano lamentato di trovare il personaggio di A. A. Milne offensivo per
le sensibilità islamiche. Lo stesso è successo al gelato al
cioccolato Swirl di Burger King, che ricordava ad alcuni musulmani delle
scritte in arabo del Corano. Bawer racconta che la Croce Rossa Britannica
ha eliminato gli alberi di Natale e le rappresentazioni della natività
dai suoi negozi per paura di offendere i musulmani. Per ragioni simili,
la polizia olandese, negli strascichi dell’omicidio van Gogh, ha distrutto
un murale a Rotterdam che proclamava “Quinto, non uccidere”
e agli studenti è stato proibito di applicare la bandiera olandese
agli zaini, perché gli immigrati potrebbero ritenerla una “provocazione”.
I media europei ricorrono spesso all’autocensura quando debbono parlare
di estremismo islamico nei loro paesi o di crimini commessi dai musulmani,
e la loro copertura della guerra al terrorismo fa apparire equilibrati i
mainstream media americani. Quando vengono alla luce problemi interni legati
ad immigrati musulmani, la reazione dei media europei, secondo Bawer, di
solito è autocritica. A Malmö, la terza città svedese
per grandezza, gli stupri, i furti, gli incendi alle scuole, i delitti “d’onore”
e le agitazioni antisemite erano così sfuggite dal controllo che
molti svedesi del luogo sono andati via; il governo ha dato la colpa dei
problemi di Malmö al razzismo degli svedesi e ha rimproverato chi aveva
erroneamente concepito l’integrazione come “due categorie ordinate
gerarchicamente”, un “noi” che dobbiamo integrare e un
“loro” che devono essere integrati.
Quando
appeasement vuole dire arrendersi
Il Belgio, da parte sua, ha istituito un Centro governativo per le pari
opportunità e la lotta al razzismo (ceeor) che recentemente ha accusato
un fabbricante di cancelli per garage, di far lavorare gli operai musulmani
solo in fabbrica, senza mai mandarli a istallare i cancelli a domicilio.
Secondo il giornalista belga Paul Belien, il cui Brussels Journal (www.brusselsjournal.com)
è un’importante fonte di informazioni sulle guerre culturali
europee, il ceeor ha rifiutato di perseguire un musulmano che aveva creato
una serie di fumetti antisemiti, perché facendolo avrebbe “infiammato
la situazione”.
Come forse si poteva prevedere, gli ebrei europei hanno spesso fatto la
parte del canarino nella miniera nei processi di integrazione islamica.
Due anni fa un disc jockey parigino fu brutalmente assassinato e il suo
assalitore gridava: «Ho ucciso il mio ebreo, andrò in paradiso».
Nella stessa notte un altro musulmano uccise una donna ebrea, davanti agli
occhi inorriditi della figlia. Ma al tempo, come ha scritto l’editorialista
Mark Steyn, «nessuno dei principali giornali francesi riportò
la storia» di questi omicidi. Lo scorso febbraio i media francesi
riportarono, invece, l’orribile assassinio di un ragazzo ebreo di
23 anni, Ilan Halimi, torturato per tre settimane da una banda di islamisti;
la sua famiglia sentiva le urla del ragazzo torturato durante le telefonate
che chiedevano il riscatto mentre, scrive Steyn «i torturatori leggevano
a voce alta versi del Corano». Cita un detective della polizia che
si scuoteva di dosso la dimensione jihadista dell’orrore dicendo che
era tutto piuttosto semplice: «Gli ebrei significano denaro».
Questi modelli di sedizione e pacificazione sono divenuti finalmente palesi
a tutti all’inizio di quest’anno nella jihad contro le vignette
danesi. Le vignette che raffiguravano Maometto di per sé causarono
scarsa attenzione in Danimarca e altrove quando furono pubblicate sul quotidiano
di Copenhagen, Jylliands-Posten, per la prima volta, l’anno scorso.
Ma quando gli imam islamici danesi iniziarono ad agitare tutto il Medio
Oriente (aiutati da tre ulteriori vignette, molto più offensive,
di loro invenzione) esplose un furore internazionale e dozzine di persone
furono uccise da musulmani in rivolta in Europa, Africa e Asia. Come Henrik
Bering scrisse sul Weekly Standard: «Improvvisamente i danesi erano
il popolo più odiato della Terra, le loro ambasciate venivano attaccate,
la loro bandiera bruciata e paesi come l’Iran, l’Arabia Saudita
ed altri vati dell’illuminismo davano lezioni di tolleranza religiosa».
L’Europa, nel complesso, ha reagito intensificando l’appeasement.
Così l’allora ministro italiano per le Riforme, Roberto Calderoli,
fu costretto a dimettersi per aver indossato una maglietta con una delle
vignette offensive – un atto sconsiderato che, deduceva l’allora
Primo ministro Silvio Berlusconi, aveva causato gli assalti al consolato
italiano a Benghazi in cui erano state uccise undici persone. I giornali
che pubblicavano le vignette subirono forti pressioni politiche; alcuni
giornalisti furono oggetto di accuse penali; siti web furono costretti a
chiudere. La catena di supermercati Carrefour, presente in tutta Europa,
inchinandosi alla pretesa islamista di boicottare i prodotti danesi, espose
nei suoi magazzini cartelli in lingua araba e inglese che esprimevano “solidarietà”
alla “comunità islamica”, notando, cosa inelegante ma
rivelatrice, che “Carrefour non vende prodotti danesi”. Il governo
norvegese costrinse il direttore di una pubblicazione cristiana a scusarsi
pubblicamente per aver pubblicato le vignette danesi; alla conferenza stampa
il povero direttore era circondato da ministri e imam norvegesi. Il commissario
per gli Esteri dell’Unione Europea, Javier Solana si è trascinato
in un pellegrinaggio di scuse da un paese arabo all’altro, dichiarando
che gli europei condividevano “il dolore” dei musulmani “offesi”
dalle vignette danesi. Per non essere da meno, il commissario agli Affari
giuridici dell’ue, Franco Frattini, ha annunciato che l’Unione
europea istituirà un “codice per i media” che incoraggi
la “prudenza” – dove “prudenza” è un
sinonimo di “resa”, comunque la si pensi sui meriti artistici
o sulla sensibilità culturale dimostrata dalle vignette più
famose del mondo.
Per quanto ciechi, i politici che negli anni Trenta tentarono un approccio
pacificatore con l’aggressione totalitaria, almeno pensavano di difendere
il loro stile di vita. Bruce Bawer (seguendo la ricercatrice Bat Ye’or)
sostiene che l’appeasement europeo verso gli islamici corrisponde
ad autoinfliggersi la dhimmitude: cercando di rallentare la crescente ondata
islamica, molti leader nazionali e transnazionali europei cedono aspetti
fondamentali della sovranità, trasformando gli europei origirnari
in cittadini di seconda e terza classe nei loro stessi paesi.
Bawer attribuisce la mentalità pacificatrice europea e le sue conseguenze
alla smania del politicamente corretto multiculturale, e sicuramente c’è
del vero in questo. Perché, in un simpatico esempio di ironia intellettuale,
il multiculturalismo europeo, basato sulle teorie postmoderne della presunta
incoerenza del sapere (e quindi della relatività di tutte le rivendicazioni
della verità), è diventato esso stesso estremamente incoerente,
per non dire contraddittorio.
Prendete, per esempio, il caso di Iqbal Sacranie, segretario generale del
Consiglio musulmano britannico, nominato dal primo ministro Tony Blair suo
consigliere per gli affari musulmani, cosa che gli è valsa la nomina
a cavaliere. In una serie di episodi che sembrano qualcosa visto attraverso
le lenti di Lewis Carroll, Sir Iqbal ben presto si è recato alla
bbc per annunciare che l’omosessualità «danneggia le
stesse fondamenta della società»; in seguito alle proteste
della lobby gay britannica, è stato posto sotto indagine dalla Comunity
safety unit di Scotland Yard, la cui competenza include «i crimini
razzisti e l’omofobia»; in seguito, quando una lobby musulmana
chiese a Blair di cancellare la giornata commemorativa dell’Olocausto,
istituita alcuni anni prima, Sir Iqbal appoggiò la richiesta, informando
il Daily Telegraph che «i musulmani si sentono feriti ed esclusi perché
le loro vite non sono considerate alla pari di quelle perse al tempo dell’Olocausto».
Però attribuire la responsabilità della paralisi europea alla
mania per il politicamente corretto “multi-culti”, significa
fermarsi alla superficie delle cose. La Guerra culturale A – il tentativo
di imporre il multiculturalismo e uno stile di vita libertino in Europa
limitando la libertà di parola , definendo bigotteria le convinzioni
religiose e morali e usando i poteri dello Stato per imporre “integrazione”
e “sensibilità” – è una guerra sul significato
della tolleranza stessa. Quello che Bawer giustamente deplora come politicamente
corretto fuori controllo, è radicato in un malessere più profondo:
il rifiuto della convinzione che gli esseri umani, per quanto in maniera
inadeguata e incompleta, possano cogliere la verità delle cose –
una convinzione che per quasi due millenni è stata alla base della
civiltà europea, formatasi dall’interazione di Atene, Gerusalemme
e Roma.
L’alta cultura postmoderna europea ripudia questa convinzione. E poiché
concepisce solo “la mia verità” e “la tua verità”,
rifiutando con determinazione qualsiasi idea di “verità”,
può concepire la tolleranza solo come indifferenza alle differenze
– un’indifferenza che deve essere imposta da uno Stato coercitivo,
se necessario. L’idea di tolleranza come confronto di differenze nel
vincolo della civiltà (come disse una volta Richard John Neuhaus)
è essa stessa considerata intollerante. Chi difende la vera tolleranza
della discussione pubblica ordinata su rivendicazioni di verità in
competizione fra loro (comprese le convinzioni religiose e morali) rischia
di essere allontanato, e in alcuni casi è allontanato, dalle pubbliche
piazze europee, marchiato come “bigotto”.
Ma il problema è ancora più profondo. Intanto, per quanto
i postmodernisti europei possano proclamare la loro devozione alla relatività
di tutte le verità, in pratica questo si traduce in una cosa molto
diversa – cioè il disprezzo dei valori tradizionali occidentali
combinato a una studiata deferenza di quelli non o antioccidentali. Nel
modo di pensare relativista, viene quindi fuori, non tutte le religioni
e le convinzioni morali sono bigotterie da sopprimere; lo è solo
quella giudaico-cristiana. In breve, il relativismo morale dell’Europa
è spesso solo di facciata, una maschera per l’odio di sé
occidentale.
Inoltre, il devastante scetticismo europeo va a braccetto con quello che
Alan Bloom definì debonair nihilism – un nichilismo che, nella
sua indifferenza a qualsiasi cosa oltre il sé, ha dato il suo contributo
alla incapacità del continente di creare il futuro, creando generazioni
successive. Bruce Bawer ha lasciato l’America per l’Europa a
causa di quella che considerava una minacciosa influenza della destra religiosa
sulla politica americana, e perché l’Europa era molto più
“aperta” degli Stati Uniti ai matrimoni omosessuali. Sembra
non cogliere che quello che ha reso l’Europa attraente per quelli
come lui – la sua presunta apertura morale – è quello
che l’ha resa così vulnerabile all’Islam estremista.
Bawer suggerisce che l’Europa possa riguadagnare il suo coraggio e
difendere le sue società libere, rifiutando il politicamente corretto
multiculturale ma conservando l’espressione politica dello scetticismo
e del relativismo: la libertà concretizzata nella legge sotto forma
di autonomia personale estrema. Ma è proprio l’autonomia personale
estrema che ha contribuito a far precipitare l’Europa in questo rapido
declino demografico; è l’autonomia personale estrema che ha
portato l’Europa a denigrare le conquiste della sua stessa civiltà,
vedendo nella sua storia solo repressione e intolleranza; ed è l’autonomia
personale estrema che è alla base del politicamente corretto e dei
suoi effetti corrosivi sulla capacità dell’Europa di difendersi
dall’aggressione islamica interna.
Ratzinger
e Pera, una base di valori comuni fra laici e cattolici
Un’analisi diversa e molto più persuasiva delle guerre culturali
europee è emersa da un rimarchevole dialogo avvenuto nel 2004. Gli
interlocutori di questa conversazione potrebbero apparire un po’ improbabili:
Marcello Pera, un accademico italiano agnostico poi dedicatosi alla politica
(è stato presidente del Senato), e il Cardinale Joseph Ratzinger,
allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, la principale
agenzia teologica della Chiesa cattolica.
Pera aveva tenuto una lezione su “Relativismo, Cristianità
e Occidente” all’Università Pontificia Lateranense di
Roma; Ratzinger, su invito di Pera, aveva tenuto un discorso in Senato su
“Le radici spirituali dell’Europa”. I due avevano poi
iniziato a scambiarsi lettere per esplorare l’impressionante convergenza
di analisi che aveva caratterizzato i loro interventi. Le lezioni e le lettere
sono state pubblicate nel 2005 in un piccolo libro che aveva creato un certo
rumore, destinato a intensificarsi nel successivo aprile, quando Joseph
Ratzinger divenne Papa Benedetto XVI. Il volume di Ratzinger e Pera è
stato ora pubblicato negli Stati Uniti col titolo: Senza radici:Occidente,
relativismo, Cristianità, Islam.
Molto prima di diventare Papa, Joseph Ratzinger, un intellettuale ampiamente
rispettato che era subentrato a Andrei Sakharov alla presidenza della prestigiosa
Académie des sciences morales et politiques francese, da molto tempo
avvisava i suoi concittadini europei che il loro gingillarsi con i giochini
del postmodernismo stava causando seri problemi alle loro società
e alle loro politiche. Questi problemi, sostiene qui, sono al tempo stesso
intellettuali, spirituali e morali. Il «crollo delle certezze originarie
dell’uomo [europeo] su Dio, se stesso e l’universo» ha
portato al «declino della coscienza morale fondata sui valori assoluti»
e al «reale pericolo» della «autodistruzione della coscienza
europea». Perché, chiede Ratzinger, l’Europa «ha
perso ogni capacità di amare se stessa»? Perché l’Europa
riesce a vedere nella propria storia solo «quanto vi è di deplorevole
e distruttivo... [e] non riesce più a percepirne gli aspetti grandi
e puri»?
I secolaristi europei hanno già ascoltato critiche come quelle di
Ratzinger e le hanno liquidate come le perorazioni interessate dei cristiani
militanti. La gradita sorpresa in Senza radici è la risposta di Marcello
Pera: in sostanza una critica speculare da parte di chi si descrive come
un non credente e un filosofo della scienza. «Infettati da un’epidemia
di relativismo», scrive Pera, gli europei credono che «accettare
e difendere la propria cultura sarebbe un atto di egemonia, di intolleranza,
[che tradisce] un atteggiamento anti-democratico, anti-liberale e irrispettoso».
Ma proprio questa tossina li ha portati nella “prigione” del
politicamente corretto, una “gabbia” nella quale «si è
rinchiusa l’Europa [...] per paura di dire cose che non sono per niente
scorrette ma piuttosto comuni verità, per evitare di affrontare le
proprie responsabilità».
Pera è diretto anche quando parla della riluttanza dell’Europa
a difendersi contro l’Islam estremista. Gli europei comprendono, si
chiede, «che è in gioco la loro stessa esistenza, che la loro
civiltà è diventata un bersaglio e la loro cultura è
sotto attacco? Capiscono che sono stati chiamati a difendere la loro stessa
identità? Con la cultura, l’istruzione, i negoziati diplomatici,
le relazioni politiche, gli scambi economici, il dialogo, la predicazione,
ma anche, se necessario, con la forza?».
Nel suo saggio contenuto in Senza radici, Ratzinger, facendo sua una idea
di Tonybee, ipotizza che qualsiasi rinnovamento della morale europea possa
essere operato solo da “minoranze creative” che sfideranno il
secolarismo, l’ideologia de facto dell’ue, ricorrendo a un nuovo
incontro con l’eredità morale e religiosa giudaico-cristiana
dell’Europa. Da parte sua, Pera suggerisce la necessità che
«l’opera di rinnovamento [...] sia compiuta da cristiani e secolaristi
insieme». Quell’opera, scrive, comporterà lo sviluppo
di una «religione civile che istillerà i suoi valori attraverso
la lunga catena che va dall’individuo alla famiglia, i gruppi, le
associazioni, la comunità e la società civile, senza passare
attraverso i partiti politici, i programmi di governo e la forza degli Stati
e quindi senza alterare la separazione, nella sfera temporale, fra Chiesa
e Stato» (enfasi nell’originale).
La proposta di una “religione civile” rimane piuttosto vaga,
ma lo scorso febbraio i suoi contorni sono diventati più chiari,
quando Pera ha lanciato un nuovo movimento chiamato “Per l’Occidente,
forza di civiltà”. Il manifesto del movimento inizia con una
vivida descrizione delle due guerre culturali dell’Europa, continua
affermando che la civiltà occidentale è una «fonte di
principi universali e irrinunciabili» e impegna i firmatari (fra cui
molti intellettuali e politici del centrodestra) in un vasto programma di
rinnovamento: «privare [il terrorismo] di ogni giustificazione o sostegno»;
integrare gli immigrati «in nome della condivisione dei valori »;
sostenere «il diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale»;
smantellare la burocrazia superflua; «affermare il valore della famiglia
quale società naturale fondata sul matrimonio»; diffondere
«libertà e democrazia quali valori universali»; conservare
la separazione istituzionale fra Stato e Chiesa «senza cedere al tentativo
laicista di relegare la dimensione religiosa solamente alla sfera del privato»;
promuovere un salutare pluralismo nel campo dell’istruzione. Il manifesto
si conclude con una chiamata alle armi e un ammonimento: «Chi dimentica
le proprie radici non può essere libero né rispettato».
Rimane da vedere se iniziative come quella di Marcello Pera, o analisi come
quella che ha avanzato in tandem intellettuale con Papa Benedetto, cominciano
a prendere piede nelle alte sfere intellettuali in Europa. Secondo alcuni
è già troppo tardi, il punto di non ritorno demografico è
stato raggiunto e, come dice Mark Steyn, «con la popolazione successiva
[cioè l’Islam] già pronta al suo posto [...] resta solo
da vedere quanto sarà sanguinoso il trasferimento di proprietà».
Ma se vogliamo evitare che le due guerre culturali dell’Europa producano
una accelerazione dell’emergenza “dell’Eurabia”
(come l’ha definita Bat Ye’or), c’è bisogno, e
presto, di qualcosa di simile all’iniziativa di Pera.
L’approccio alternativo al futuro dell’Europa è stato
ben evidente nell’agosto del 2004, quando è morto Robin Cook,
l’ex ministro degli Esteri britannico (contrario alla guerra in Iraq).
Il funerale si è tenuto nella storica High Kirk di Edimburgo, St.
Giles, ed è stato officiato dal vescovo Richard Holloway, l’ex
primate anglicano di Scozia che alcuni anni fa ha scritto un libro in cui
tentava di riconciliare i suoi lettori con quella che definiva la «grande
indifferenza dell’universo». In seguito Holloway descrisse il
funerale con queste parole: «Ero lì, un anglicano agnostico
che diceva messa in una chiesa presbiteriana per la morte di politico ateo.
E ho pensato che era una cosa meravigliosa».
Il nichilismo radicato nello scetticismo, prodotto dalla cattiva fede del
relativismo morale e del disprezzo di sé dell’Occidente, che
si consola con un vacuo umanitarismo: non solo tutto questo non è
meraviglioso, ma ha contribuito a uccidere demograficamente l’Europa
e a paralizzarla di fronte ad una ideologia aggressiva che vuole sradicare
l’umanitarismo occidentale in nome di una idea distorta della volontà
di Dio. Chi ama l’Europa e quello che essa ha significato e potrebbe
significare per il mondo, farebbe bene a sperare che siano Marcello Pera
e i suoi alleati fra i credenti e non il vescovo Holloway e i suoi compagni
nichilisti raffinati, a vincere nella competizione per risolvere le due
guerre culturali dell’Europa.
© Commentary, maggio
2006. Titolo originale: “Europe’s Two Culture Wars”.
(Traduzione dall’inglese di Barbara Mennitti)
George
Weigel, Senior Fellow dell’Ethics and Public Policy Center di Washington,
esperto del Vaticano per NBC News, è autore della più significativa
biografia di Giovanni Paolo II. In uscita in italiano il nuovo libro sull’elezione
di Benedetto XVI.
(c)
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