Europeismo servile ed europeismo razionale
di Ludovico Incisa di Camerana
Ideazione di novembre-dicembre 2005

C'è sempre stata in Italia una netta distinzione tra un europeismo servile e un europeismo razionale. L'europeismo servile nasce da un organico complesso d'inferiorità rispetto alle altre potenze europee, la Francia, la Germania, l'Inghilterra: complesso d'inferiorità che non si risolve in uno schiarimento diretto e preciso dei nostri rapporti bilaterali con ciascuno di tali paesi, ma spinge ad aggirare tali rapporti sul piano multilaterale, passando per Bruxelles, sopravvalutando il ruolo degli organismi comunitari e dei loro esponenti, come se si trattasse di divinità dell'Olimpo e non di personaggi quasi sempre in grado di gestire una prassi quotidiana, ma senza colpi d'ala, per quanto dotati di prerogative tali da fare di ogni commissario un reuccio nel suo campo, un fabbricante di editti talvolta giusti talvolta arbitrari, ma, come dimostrato da un'esperienza pluridecennale, incapace di svolgere un'efficace mediazione tra i quattro maggiori paesi europei.

Questa riluttanza a privilegiare i rapporti con i partner più importanti, temendo di intaccare a torto il lealismo europeista, ha danneggiato gravemente in passato la politica estera italiana. Certamente l'Italia deve la sua modernizzazione al suo inserimento nell'Europa istituzionale, ma anche, alle origini ed oltre, ad una felice articolazione del proprio europeismo con il rapporto bilaterale con gli Stati Uniti, trascurando invece il rapporto bilaterale con la Francia, la potenza intellettualmente a noi più vicina, e con la Germania, il modello tecnologico guida, sciupando tali rapporti nel brodo di Bruxelles, mentre il rapporto bilaterale con gli Stati Uniti manteneva continuità e solido spessore.

Il culmine dell'europeismo servile è rappresentato, certamente in buona fede, ma con poca cautela, dalla piena adesione dell'Italia agli accordi di Maastricht: si sono allora assunti per restare, in omaggio all'europeismo, in un presunto gruppo di testa, impegni in campo economico, che non eravamo in grado di osservare in una prospettiva di sviluppo. I parametri di Maastricht, tra l'altro, si sono dimostrati una palla al piede anche per la Germania e per la Francia, per quelle che dovevano essere le locomotive dell'Europa, ma senza metterle nell'angolo, senza scalfire il loro prestigio, rafforzato da un rapporto bilaterale, divenuto un vero patto d'acciaio. Viceversa nell'ottica dei media italiani e di certa stampa internazionale, al minimo scarto da regole discutibili, solo l'Italia è peccatrice, colpevole di leso europeismo.

L'europeismo razionale
Fortunatamente anche in Italia all'europeismo servile si contrappone un europeismo razionale, costruttivo, realista. Di questo europeismo Achille Albonetti è stato in modo permanente uno degli alfieri più rispettati anche se meno ascoltati. Ma le sue idee rimangono valide anche per il futuro, come dimostra il suo saggio L'Italia, la politica estera e l'unità dell'Europa (Edizioni Lavoro, Roma 2005), perché indicano che l'Italia può dare un contributo più solido allo sviluppo dell'unità politica europea, partendo da una posizione immaginativa, da una ricchezza di proposte e non da una posizione di sottomissione e di timidezza, da potenza autentica e non da caporale dell'Ue.

La preoccupazione di un europeista lucido come Sergio Romano, autore di una brillante prefazione al saggio di Albonetti, è il rischio di un declassamento dell'Italia in Europa, declassamento che potrebbe essere allontanato da un rilancio delle istituzioni di Bruxelles da parte dei sei paesi fondatori della Comunità. Peraltro due di essi, Francia e Olanda, hanno avuto il merito con un voto popolare negativo nel referendum sulla nuova Costituzione di aver segnalato l'impossibilità di procedere sulla via dell'elefantiasi cartacea e di una visione minimalista non solo nel campo della politica estera comune, sempre più evanescente, ma anche sul culto di direttive economiche che, prima o poi, metteranno tutti i paesi europei in castigo.

Albonetti propone all'Italia di rimanere agganciata ai grandi dell'Unione Europea. È una raccomandazione giustificata. Non è facendo dispetti alla Francia che si possono risolvere problemi comuni come quello delle incontenibili migrazioni dall'Africa nera, ricostruendo, dopo un secolo e mezzo, nelle metropoli europee la periferia miseranda descritta da Dickens e di Sue. Occorre decidere se l'Europa industriale può sopravvivere aprendo le porte oggi ai prodotti asiatici, domani ai prodotti africani. Occorre porre dei limiti a un fanatismo che ha ridotto al minimo la classe operaia e minaccia anche i ceti medi. Occorre decidere cosa fare con la Russia, con le straordinarie opportunità che può offrire non solo fino a gli Urali, come immaginava de Gaulle, ma anche oltre gli Urali.

Accennando al problema della sicurezza, spina dorsale di un'Europa politicamente unita, Albonetti ricorda che «la caduta del progetto della Comunità Europea di difesa (Ced) nell'agosto 1954 ha fatto sì che la difesa e la sicurezza europee siano state affidate agli Stati Uniti durante gli ultimi cinquant'anni. E la situazione ancora oggi è la stessa». E riferendosi al maremoto che ha colpito l'anno scorso l'Asia sud-orientale, Albonetti osserva che l'Europa ha dimostrato non solo, come in passato, di non essere una potenza politica e militare, ma di non essere «nemmeno una potenza civile».

I tre cardini della politica estera italiana
Ripercorrendo la storia della politica estera italiana Albonetti le riconosce il merito di aver promosso nel primo mezzo secolo dopo l'indipendenza «il consolidamento delle nuove frontiere unitarie del paese, e quindi l'esistenza del nuovo Stato e il suo sviluppo. L'industria nazionale fu, così, assicurata nella difficile fase dell'integrazione istituzionale, amministrativa, politica ed economica». Si è perciò avviato il processo di industrializzazione. Passando al secondo dopoguerra Albonetti sottolinea i due poli della politica estera repubblicana, la collaborazione con gli Stati Uniti e l'integrazione con l'Europa, nonché la scelta dell'economia di mercato. Dopo quello che è stato un itinerario trionfale, nonostante l'opposizione interna della sinistra, «i tre cardini della politica estera italiana – associazione con gli Stati Uniti nell'Alleanza Atlantica, unità europea, mercato libero – sono sufficienti a sottolineare la lungimiranza e la saggezza della politica estera italiana», garantendo al paese «le basi per una crescita politica ed una prosperità economica e sociale senza precedenti».

La ricetta per la situazione attuale è ovviamente più complessa. Albonetti sostiene che l'Italia nell'ambito dell'Ue deve battersi per il primato della politica estera e della sicurezza, suggerisce invece di non concentrarsi nella politica d'integrazione economica tanto più dopo l'allargamento a 25 paesi membri, ma in questo momento si soffre proprio l'invadenza di una politica d'integrazione economica, più che mai idolo dell'europeismo servile e forte del grosso dell'acquis communautaire, il coacervo della normativa comunitaria. Ecco perché bisogna contare, nell'ambito dell'europeismo razionale, sul pragmatismo economico degli Stati Uniti e sulla loro propensione positiva verso l'Europa. A questo riguardo Albonetti ricorda che gli Stati Uniti hanno salvato tre volte l'Europa: dall'imperialismo militare tedesco nella prima guerra mondiale, dal totalitarismo nazista nella seconda, dal totalitarismo sovietico nella Guerra Fredda. Senza il deterrente nucleare e spaziale americano, senza i 300.000 soldati dislocati nell'Europa centrale e senza la flotta americana nel Mediterraneo, l'Europa sarebbe stata travolta dalla potenza dell'Unione Sovietica e dall'ideologia comunista. Tuttora l'Europa dipende dagli Stati Uniti: «Non può, cioè, assicurare la propria autonomia, entità e sopravvivenza senza la volontà di Washington». C'è però il pericolo, più che di una dipendenza passiva, di salti d'umore, di scarti e dispetti da parte delle maggiori potenze europee e in particolare del duetto franco-tedesco che si trova a disagio nell'Europa allargata. Ma sia il ricupero di una capacità d'iniziativa comune sia l'acquisizione di una maggiore influenza europea sul maggiore alleato non dipendono giustamente dalla priorità data a Bruxelles ad un'integrazione economica che, ormai, invece di essere un fattore di sviluppo rischia di essere controproducente per le economie nazionali dei paesi membri. La via economica, secondo Albonetti, «ha dato forse il massimo». Ora occorre con urgenza procedere all'unità politica cominciando con la difesa.

Il rango dell'Italia
Stabiliti i capisaldi del futuro istituzionale europeo, Albonetti prende in esame con competenza alcuni obiettivi specifici: l'apporto europeo nel settore militare nucleare e convenzionale come nel settore delle armi pesanti e leggere, la via per l'Europa politica. Un'attenzione particolare è dedicata al tema dell'energia nucleare. Su questo punto Albonetti è giustamente severo verso la classe politica italiana, ricordando che l'Italia era estremamente avanzata in tale campo (eravamo l'unico paese ad avere nel territorio nazionale tre centrali nucleari di tipo diverso ossia «tre formidabili laboratori tecnologici, scientifici e di formazione»). L'ente nucleare italiano era un modello per gli altri paesi. Per demagogia, invece, si è voluta estirpare dalle radici la tecnologia nucleare. Si è esclusa una posizione come quella del Giappone e della Germania che, pur non essendo militarmente Stati nucleari, hanno continuato a servirsi della tecnologia nucleare. Anche in questo campo l'europeismo servile ha dato il suo contributo negativo, rinviando la gestione del settore ad un'iniziativa degli anni '50, l'Euratom, poi risucchiato nel magma burocratico dell'Unione Europea. Senza dubbio comunque la rinuncia al nucleare ha declassato il rango europeo dell'Italia.

Il problema del rango europeo dell'Italia è collegato da Albonetti a un tema molto attuale: quello dei direttori all'interno dell'Ue. Premesso che lo sganciamento dell'Italia dal binomio franco-tedesco nel 1963 sia stato un fatale errore, il problema si è riproposto nell'Europa allargata dall'apparizione del triumvirato anglo-franco-tedesco, protagonista di interessanti progetti congiunti in campo militare e di iniziative secondarie finora andate a vuoto (il negoziato sul nucleare con l'Iran) e ultimamente indebolito dalle prese di posizioni antiamericane sulla crisi irachena, dal duello franco-britannico sulle quote agricole e sul rimborso parziale all'Inghilterra del suo contributo comunitario (perché guai a chi mette le mani in tasca a questi signori). Attualmente il trio zoppica e la situazione è così fluida che l'Italia, come consiglia Albonetti, potrebbe avere successo con un'azione diplomatica paziente.

La questione infatti preoccupa giustamente Albonetti, ma il problema delle alleanze italiane non va risolto solo in un ambito europeo che ci metterebbe a rimorchio di due o tre potenze che non suscitano tra i nuovi membri l'attrazione e l'ammirazione di cui godevano in precedenza presso i paesi fondatori minori e i paesi, in maggioranza nordici, entrati nell'Ue prima della caduta del muro di Berlino.

L'Italia ha così una maggiore possibilità di scelta e soprattutto può aggiungere agli alleati tradizionali un altro prezioso alleato, la Russia. L'importante è mettere da parte l'europeismo servile, fatto di umiliazioni e sottomissioni, e sviluppare organicamente un europeismo razionale e, perché no?, irrobustito da un solido egoismo nazionale. Su queste linee Albonetti apre un dibattito decisivo per la strategia internazionale dell'Italia in Europa.



Ludovico Incisa di Camerana, studioso di politica internazionale, è stato per molti anni ambasciatore in diversi paesi del Sud America e presidente dell'Istituto italiano latino-americano.

(c) Ideazione.com (2006)
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