Il vivace dibattito in materia di riconoscimento e
tutela giuridica delle coppie di fatto cui assistiamo da qualche tempo appare
per molti versi viziato da un elevato tasso di astrattismo e di ideologismo.
Sul terreno sembrano confrontarsi esclusivamente due posizioni nette quanto
inconciliabili: da un lato una concezione laicista che rivendica sic et
simpliciter un'estensione dei diritti dei soggetti (eterosessuali ed omosessuali)
che danno vita a stabili convivenze e dall'altro una visione theocon che
ribadisce una visione della famiglia come cellula fondamentale del nostro
sistema sociale e, conseguentemente, rifugge da ogni innovazione giuridica
e legislativa che possa indebolirne il ruolo.
In realtà, il tema merita un approccio più analitico che punti
ad andare più in profondità per verificare se vi siano ragioni
sufficienti per giustificare un intervento legislativo che porti ad una
qualche (e quale) formalizzazione dell'istituto delle coppie di fatto. Il
punto non è infatti quello di definire la legittimità delle
convivenze, quanto di verificare puntualmente quali siano le ragioni che
dovrebbero rendere necessaria o almeno opportuna una formalizzazione giuridica
di una situazione di fatto, presente nel sistema sociale senza alcun bisogno
di un riconoscimento da parte dello Stato.
Preliminarmente, può essere utile una rapidissima riflessione sui
caratteri essenziali del regime giuridico della famiglia, nonché
sulle ragioni che ne hanno determinato lo sviluppo storico. La tutela della
famiglia, in questa prospettiva, si traduce in un coacervo di previsioni
normative di varia natura che possono essere in modo estremamente sintetico
suddivise in tre gruppi: le norme che disciplinano i rapporti interni alla
famiglia, fornendo ad alcuni componenti tutele nei confronti di altri (particolarmente
rilevanti quelle previste nel caso di crisi della relazione coniugale);
le norme che disciplinano le situazioni in cui terzi entrano in contatto
con la famiglia, la posizione dei quali viene in qualche modo compressa
rispetto alla generale disciplina dei rapporti civilistici (si pensi alla
disciplina dei rapporti negoziali posti in essere da un soggetto coniugato);
le norme che tutelano diritti, potestà, interessi ed aspettative
che i componenti della famiglia possono vantare nei confronti dello Stato
o in generale dei poteri pubblici (come, ad esempio, la disciplina fiscale
e previdenziale che si applica ai soggetti coniugati).
Il tratto comune dei tre gruppi di norme, sommariamente enucleati, è
di costituire una tutela rafforzata rispetto alla ordinaria disciplina civilistica
ed amministrativa: si tratta cioè di norme le quali forniscono una
posizione differenziata e più favorevole ai soggetti in quanto componenti
di una famiglia. Tale rafforzamento non è naturalmente privo di costi:
alla tutela rafforzata del coniuge corrisponde inevitabilmente un indebolimento
della posizione del soggetto che entra direttamente o indirettamente in
contatto con lui (l'altro coniuge, i terzi, i contribuenti). Il problema,
quindi, non può essere semplicisticamente risolto invocando un'estensione
dei diritti, richiamando impropriamente il principio liberale dell'autonomia
dell'individuo.
Occorre verificare in modo più preciso se vi siano ragioni per estendere
(anche parzialmente, come chiedono i sostenitori dei Pacs) la tutela giuridica
tipica della famiglia ad altre situazioni e se sia corrispondentemente giusto
comprimere la sfera giuridica dei terzi che vengano in contatto con i soggetti
componenti una coppia di fatto. Occorre sempre ricordare che al riconoscimento
di diritti corrisponde inevitabilmente l'introduzione di doveri o di divieti
a carico di altri soggetti. Per dirla con Milton Friedman: nessun diritto
è gratis (there is no such thing as a free rights).
L'istituto della famiglia ha origini antichissime, addirittura precedenti
la nascita degli ordinamenti statali più antichi. La disciplina e
la tutela della famiglia rispondono ad esigenze fondamentali del consesso
civile, ed in particolare alla necessità – propria di ogni organizzazione
sociale evoluta – di garantire una cornice giuridica affidabile per consentire
lo sviluppo di un processo di procreazione ordinato, nella convinzione che
un sistema sociale e culturale solido non possa prescindere dalla diffusione
di forme stabili di relazioni di coppia finalizzate (almeno in potenza)
alla procreazione. In tal senso, l'esigenza spontanea dei soggetti che decidono
di dare vita a coppie stabili si incontra con l'esigenza sociale di rendere
(per quanto possibile) ordinato e prevedibile lo sviluppo delle relazioni
interpersonali finalizzate alla procreazione. Infatti, l'attività
procreativa coinvolge inevitabilmente interessi altamente sensibili che
non possono essere rimessi unicamente all'autonoma regolazione dei soggetti
interessati. Si pone, inoltre, l'esigenza di agevolare la posizione di quanti
decidono di mettere al mondo figli, fornendo al contempo ai figli nati da
tali unioni una affidabile cornice giuridica di riferimento. Se non temessimo
di apparire materialisti ed economicistici, potremmo dire che l'attività
procreativa presenta forti esternalità positive per la società
e ciò definisce lo spazio per un intervento pubblico a tutela e sostegno.
Inoltre, a partire da una certa età storica il regime giuridico della
famiglia si è sviluppato anche in relazione alla necessità
di garantire una specifica tutela al coniuge economicamente e socialmente
più debole, il quale dedicando maggiore energia e maggior tempo all'attività
di allevamento dei figli aveva evidentemente necessità di un adeguato
sistema di garanzie.
Partendo da tale inquadramento essenziale, non è facile trovare ragioni
giustificatrici per l'estensione di alcune tutele proprie dell'istituto
famigliare anche alle convivenze di fatto, sia che si tratti di coppie eterosessuali
che nel caso di coppie omosessuali. Le convivenze eterosessuali in effetti
presentano un assetto di interessi per molti versi assimilabile a quello
tipico dei nuclei familiari: si pone la necessità di garantire un
ordinato svolgimento della funzione procreativa, vi è l'esigenza
di una tutela della parte più debole e di una stabilità nella
posizione dei figli. Ciò che rimane però da spiegare è
perché mai l'ordinamento dovrebbe fornire una tutela analoga a quella
dei rapporti familiari a coloro che pur avendo a disposizione un idoneo
istituto, specificamente destinato a tutelare la convivenza e a disciplinare
i rapporti interni alla coppia, hanno liberamente deciso di non avvalersene.
La (agevole) reversibilità della scelta matrimoniale, introdotta
in Italia da più di trent'anni e recentemente rafforzata ulteriormente,
ha fatto venire definitivamente meno l'unica ragione che poteva supportare
l'esigenza di tutelare i conviventi che decidono di non sposarsi.
Il vero problema della tutela delle coppie di fatto non è quindi
quello delle coppie eterosessuali ma, evidentemente, quello delle coppie
omosessuali, alle quali non è invece consentito l'accesso al matrimonio
e che potrebbero pertanto avere necessità di una tutela da parte
dell'ordinamento. In questo caso, però, oltre alla generale esigenza
di garantire a ciascuna persona il libero sviluppo delle proprie relazioni
sociali ed affettive (che si pone per le coppie omosessuali come per tutti
gli altri soggetti: si pensi ai rapporti di amicizia o alle relazioni affettive
delle persone singole), non sembra ricorrere nessuna delle specifiche ragioni
che giustificano la tutela rafforzata propria dell'istituto matrimoniale
(non vi è esigenza di procreazione ordinata, né di stabilità
per i figli e nemmeno di tutela del coniuge debole). La compressione della
sfera giuridica dei terzi che inevitabilmente deriverebbe dalla tutela rafforzata
della coppia omosessuale sarebbe pertanto ingiustificata (basti pensare
al proprietario di casa che affitta l'immobile ad un conduttore che successivamente
avvia una relazione di coppia, al contribuente che dovrebbe sopportare l'onere
di una pensione di reversibilità, allo stesso convivente che cessata
la convivenza dovrebbe sopportare oneri per il sostentamento dell'altro).
Tutto ciò non esclude che vi possano anche essere alcune (limitate) situazioni, nelle quali il mancato riconoscimento delle coppie di fatto pone effettivamente problemi che meritano una soluzione: si pensi al consenso per la donazione di organi, all'aspettativa per malattia del convivente, alle visite in carcere, all'assistenza in ospedale, alla libertà testamentaria. In realtà, si tratta di fattispecie molto ingigantite nella polemica politica, che il più delle volte sono già risolte negli ordinamenti specifici dei diversi settori. In ogni caso, tutte queste fattispecie, più che attraverso una più o meno fedele estensione alle copie di fatto delle norme di diritto familiare, possono essere meglio affrontate mediante un rafforzamento della tutela delle libertà individuali. Sarebbe, cioè, assolutamente opportuno che ciascuno di noi potesse, indipendentemente dalla formalizzazione di rapporti di convivenza, indicare, ad esempio, una persona alla quale affidare alcune scelte in situazioni di emergenza, ovvero disporre liberamente in sede testamentaria di tutti i propri beni (come avviene ad esempio negli Stati Uniti). In un'ottica liberale, il problema non è quindi riconoscere giuridicamente le coppie di fatto, ma semmai rafforzare – in alcune specifiche situazioni – la tutela della volontà e dell'autonomia della persona, a prescindere che si tratti di convivente, omosessuale o eterosessuale. L'obiettivo deve cioè essere quello di un ampliamento della sfera delle libertà individuali, rispetto al quale è inutile, ed anzi controproducente, costruire simulacri o imitazioni della famiglia, laddove famiglia non vi è e non vi può essere.
Raffaele Perna, consigliere della Camera dei deputati è, attualmente,
capo di gabinetto del ministro della Funzione Pubblica.
(c)
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