Gli ultimi echi della campagna elettorale di primavera si sono spenti nel caldo torrido dell’estate. Berlusconi si è fatta una ragione: si perde anche per ventimila voti e si perde, quando il risultato è stato proclamato, anche se i conti delle schede non dovessero quadrare. In Parlamento vige la legge del fatto compiuto; è difficile che i ricorsi vengano seriamente valutati e, se fondati, accolti. Chi arriva al Palazzo, ci resta; chi rimane fuori, aspetta. Magari per un lustro, se la legislatura riesce ad arrivare sino in fondo.
Peraltro
a settembre, a settembre di ogni anno da quando nel 1978 fu varata la riforma
della contabilità dello Stato, va in scena la legge finanziaria.
Da diversi anni si ascoltano voci di dissenso sulla opportunità di
tenere in vita un provvedimento così complesso ed onnicomprensivo;
però le voci contrarie durano qualche giorno, la legge resta il più
difficile passaggio parlamentare che tutti i governi debbono affrontare.
Alla Camera e al Senato la Finanziaria è paragonata alle forche caudine:
è impossibile citare a mente i governi che non hanno superato la
prova, ma sono stati tanti. Il numero enorme delle votazioni, molte a scrutinio
segreto, rende il campo accidentato e spiega il sempre più ricorrente
ricorso ai voti di fiducia. Ma non sempre sono risolutivi perché
stanare il franco tiratore non è la soluzione del dissenso, semmai
lo rende più rancoroso e forte. Insomma è il clima politico
che conta e questo, francamente, non dà l’idea di potersi orientare
al bello.
I primi mesi di governo si sono svolti all’insegna della precarietà.
È venuto in evidenza uno stato diffuso d’incertezza con una
rapidità che neppure la congrega dei menagramo aveva valutato così
immediato. Basta quel gruppetto di senatori border line, come si definiscono,
a tenere Prodi sulla graticola. Ad ogni votazione, senza preavviso ma soprattutto
senza ragione, possono mandare, come si dice in gergo, il governo sotto.
È un bel pasticcio: non solo perché così governare
diventa impossibile, ma anche perché l’instabilità è
il tarlo che corrode le coalizioni.
Questi rilievi sono sotto gli occhi di tutti ed hanno dato vita a due schieramenti:
il primo spera, il secondo dispera. Nessuno però riesce a produrre
impulsi politici rilevanti. È una partita che si gioca per prendere
o, piuttosto, per perdere tempo: il rischio è che nessuno punti a
vincerla per paura del dopo, quando bisognerà definire una soluzione
alternativa.
Esplicitiamo il dilemma: l’Unione è in difficoltà, non ha i numeri e spera di tirarla per le lunghe; la Casa delle Libertà ritiene che lo sbocco della crisi di governo non determinerebbe elezioni immediatamente anticipate, teme che dopo Prodi le soluzioni ipotizzabili possano incrementare piuttosto che ridurre l’interesse verso tentazioni di avventure solitarie, considera azzardato pertanto assumere una iniziativa dirompente subito. Così si produce uno stato di paralisi istituzionale che, a sua volta, rende evidente la crisi della politica, che notoriamente non gode di ottima salute. Il rischio vero emerso dalle elezioni di primavera è che l’Italia divisa in due diventi una gran palude, una specie di ritiro termale dove gli uni e gli altri curano i muscoli senza sapere se, quando e perché dovranno usarli. Nell’ozio prevale la cura di se stessi, non della generalità dei cittadini. Si diffonde la preoccupazione di poter tornare ai primi anni Novanta, quando la crisi delle istituzioni si trascinò dietro la caduta dei politici ed il protagonismo degli esponenti di altri poteri.
La fuga in avanti del partito unico del centrodestra
Siamo
dentro il tatticismo esasperato. La politica si svolge attraverso i comunicati
che i mezzi di informazione enfatizzano: ogni giorno sembra che tutto precipiti
e tutto invece resta dov’è. Prodi percorre la stessa strada
di Berlusconi. Lamenta persino da parte di giornali e tv comportamenti ostili,
ma così funziona la comunicazione politica quando mancano i grandi
progetti: diventa importante quel che fa più clamore e vanno in prima
pagina le notizie che più sollecitano la curiosità dei lettori
frettolosi e superficiali. Non è un caso che, alla resa dei conti,
i giornali non riescano più ad orientare i comportamenti elettorali
di chi pure li legge ogni giorno.
Che cosa fare? La risposta è semplice, addirittura chiara ed univoca,
tuttavia di realizzazione difficile: recuperare il senso della politica,
il suo ruolo, la sua funzione. I grandi temi fanno fatica ad affermarsi:
il partito unico è aspirazione della destra, ci pensa pure la sinistra
ma, ogni volta che si convoca una riunione, in convento o al ristorante,
l’obiettivo sembra allontanarsi. E il giorno successivo gli schieramenti
appaiono nelle rispettive coalizioni più frantumati di prima, più
concorrenti.
Dedicheremo
anche noi approfondimenti ed analisi al partito democratico al quale stanno
lavorando, con spirito diverso, ds e Margherita e contro il quale remano
i cosiddetti movimenti della sinistra radicale; è buona regola però
guardare prima in casa propria, dove in verità i problemi non mancano
e dove un processo di accelerazione degli eventi è auspicabile. La
Casa delle Libertà comincia ad essere stretta per tutti e bisogna
fare qualcosa prima che scatti un caso irresolubile di emergenza abitativa.
Quando si chiuse la competizione, Giovanni Sartori scrisse sul Corriere
della Sera che non si poteva obiettivamente celebrare un solo vincitore:
Berlusconi aveva vinto la campagna elettorale, però Prodi aveva vinto
le elezioni. Conclusa la laboriosa fase della scelta dei più alti
vertici istituzionali, il giudizio acquisì un nuovo elemento: l’Unione
aveva fatto cappotto, accaparrandosi il presidente della Repubblica e quelli
delle due Camere; la Casa delle Libertà, impegnata a dirimere le
controversie interne, si è ritrovata ad affrontare la legislatura
senza aver piazzato un solo esponente proprio nei ruoli-chiave del sistema
costituzionale. Questa condizione influisce sul ritmo del percorso parlamentare,
sull’esito dei provvedimenti, sulle prospettive di resistenza del
governo e perciò è urgente che il centrodestra adotti una
strategia chiara a tutti, innanzitutto a se stessa e poi ai suoi elettori.
Il
tema ancora al centro del confronto si intitola partito unico. Lo invoca
a gran voce Forza Italia, si esprime con meno diffidenza an, non è
più pregiudizialmente contraria la Lega, risponde sempre negativamente
l’udc. Rivive lo schema delle diversità paralizzanti, che ormai
sono la espressione più evidente del malessere che attanaglia la
Casa delle Libertà e non le consente più di cogliere una delle
occasioni propizie. È evidente che da questa condizione d’impotenza
occorre uscire, perché in politica ci sono i momenti della mediazione
e quelli della decisione e guai a sbagliarne il tempo.
Si va facendo largo l’ipotesi di fondare in Italia il partito popolare
europeo. Il riferimento è suggestivo, ma politicamente ed elettoralmente
senza senso. Il ppe è una entità priva di organizzazione,
estranea alle linee che ogni movimento politico aderente adotta nelle singole
nazioni. A Bruxelles il partito è ospitato in un palazzotto poco
vissuto, riunisce il suo bureau con scadenze lunghe registrando frequentazioni
poco entusiaste e poco entusiasmanti, si affida da anni alla gestione burocratica
di un presidente, Wilfried Martens, che è un padre nobile sulla via
del pensionamento. Il suo vero ruolo è di tenere insieme formazioni
politiche di vari paesi e uomini di non omogenea estrazione che riconoscono
sacro il principio della libertà e di costituire con essi il più
grande gruppo presente nel Parlamento europeo. A Bruxelles e a Strasburgo
il partito popolare esprime il più alto valore di coesione politica,
nei singoli paesi è considerato il gruppo nel quale convergono gli
eletti. Il ppe raccoglie le truppe da tutta Europa, la direzione strategica
ha sede nel cuore dell’Unione. La forza elettorale si costituisce
in ogni paese, dove ogni partito schiera i propri uomini, presenta i programmi,
raccoglie i consensi.
È pensabile che la Casa della Libertà possa risolvere i problemi dell’assenza di compattezza sulle vertenze nazionali soltanto fregiandosi dell’aggettivo “europeo”? È ragionevole che si trovi l’unità dove la tensione è più diluita, lontano dal luogo dello scontro aperto, immediato, duro? E, ammesso che questa operazione sia possibile, quali tempi si dovrebbero ipotizzare per portarla a compimento, atteso che an e Lega ancora sono fuori dalla aggregazione ed ancora al loro interno discutono sulla opportunità di renderla operante? Francamente questa non sembra una soluzione possibile, piuttosto una fuga in avanti. Magari c’è anche buona fede in chi la sostiene, ma pure una dose eccessiva di ingenuità.
Completare la rivoluzione politica degli anni Novanta
Alla
fantasia non si debbono mai tarpare le ali, ma la politica insegue sogni
realizzabili, si alimenta di utopie che travolgono la prudenza dei pensieri
e delle azioni ordinarie.
Intanto c’è un dato che merita d’essere ribadito dopo
i risultati elettorali e sulla scorta dei sondaggi in circolazione: non
è vero che l’Italia guarda a sinistra. Questo lo abbiamo temuto
noi, quella parte di noi che ha ceduto alla tentazione di arrendersi senza
combattere, dando un brutto segnale di mancanza di consapevolezza della
reale forza elettorale e politica. Occorre dirlo con onestà intellettuale:
c’è stato un solo uomo che si è rifiutato sino all’ultimo
di alzare bandiera bianca, di dare per scontato ciò che appariva
evidente ed invece – è dimostrato – si poteva evitare.
Si chiama Silvio Berlusconi e va dato merito a lui, ma pure a quei milioni
di elettori che hanno confermato il rifiuto a cercare nei programmi e negli
uomini di sinistra la soluzione ai loro problemi. E questo per un fatto
semplice, che non abbiamo saputo leggere: la sinistra ormai da circa tre
lustri, perduto il riferimento alla ideologia falsa e tuttavia fascinosa
del comunismo, non ha più una politica, non produce idee, non apre
prospettive.
A questi cittadini abbiamo il dovere di fornire una risposta chiara e forte.
Debbono farlo tutti i partiti che gravitano nell’area di centrodestra,
ma è fuor di dubbio che spetta a Forza Italia il compito di essere
il motore dell’iniziativa politica. Perché è stato il
movimento di Berlusconi ad infrangere i vecchi schemi organizzativi, ad
allentare i vincoli delle vecchie rigide appartenenze, a mettere fuori uso
i meccanismi di una democrazia vissuta nel progressivo trionfo della partitocrazia
impegnata ad usurpare i poteri delle istituzioni. Nei confronti di Forza
Italia si sono detti e si continuano a sostenere banali luoghi comuni, a
cominciare da quello stolido del partito di plastica: la materia del contenitore
non dovrebbe molto intrigare gli studiosi di politologia, che però
dovrebbero aver opportunamente valutato l’alta potenzialità
esplosiva del contenuto, che ha generato una autentica rivoluzione culturale
e politica. Sì, anche culturale: perché miti che sembravano
solidissimi sono crollati e si sono diffuse dottrine che hanno stravolto
atteggiamenti di acquiescenza ai vecchi canoni, hanno introdotto nuovi filoni
culturali e ispirato nuovi stili di vita.
Il
primo a rendersene conto, ad elezioni celebrate nel 1994, fu un analista
intelligente che si chiama Massimo Cacciari; poi ci arrivò l’altro
Massimo, D’Alema, che proprio sulla insufficiente analisi politica
chiuse l’avventura di Occhetto, innovatore bloccato in mezzo al guado,
dove era finita impantanata la sua inutile macchina da guerra. Forza Italia
vinse perché erano accaduti eventi straordinari che avevano trascinato
via, con la forza di un ciclone, partiti, istituzioni e almeno tre generazioni
di classe dirigente; ma vinse soprattutto perché andò ad incrociare
le grandi esigenze di quegli anni: la libertà, in primo luogo, in
un paese che sulla libertà dei comportamenti s’era stravaccato
sino a perdere il senso del suo valore. Libertà in politica e dalla
politica intesa come setta, come mero esercizio del potere; libertà
in economia contro l’invadenza di quel pessimo imprenditore che è
lo Stato; libertà nella cultura, finalmente sciolta dai vincoli di
appartenenza alle ideologie dominanti (quella cattolica e quella comunista),
di origini contrapposte e però unite nella trasversale gestione delle
casematte. Il fervore di quei mesi oggi lo abbiamo sepolto persino nel ricordo,
adusi come siamo a coltivare recriminazioni piuttosto che speranze. Ma,
se è vero che la delusione purtroppo corre più dell’entusiasmo,
è su quest’ultimo che si deve fare affidamento per continuare
a credere nel futuro migliore.
Forza Italia farebbe bene a non impiegare il suo tempo nell’impossibile
tentativo di mettere ordine in un partito che non funzionerà mai
come quelli che hanno segnato il dopoguerra e dei quali talvolta avvertiamo
inopportuna nostalgia. Gli elettori, quando sono delusi, richiedono sbrigativamente
“pulizia”: è una domanda antica, in circolazione da sempre
anche negli ambienti politici, ma non è una espressione di dialogo,
di confronto oppure di scontro: esprime l’interesse punitivo di una
parte a danno di un’altra. Però la politica non si costruisce
sulle divisioni, sulle emarginazioni, sulle espulsioni, insomma sulla mediocrità
che spinge fuori il diverso; si sviluppa aggregando, allargando la partecipazione,
facendo interagire culture diverse per la definizione di un progetto unitario.
In un clima di generoso slancio anche i prudenti diventano coraggiosi, gli
equivoci diventano schietti. Questa fu la grande spinta di Forza Italia
quando irruppe sulla scena politica e mandò il frantumi il falso
presupposto che il paese guardava a sinistra, che la cultura fosse di sinistra,
che la vittoria fosse destinata alla sinistra.
Quel
che occorre ora è una nuova poderosa spinta in questa direzione.
Sino a quando l’esito della grande aggregazione conservatrice e liberale
sarà affidato alla mediazione degli inquilini della Casa, il nodo
non si scioglierà e l’iniziativa politica languirà.
Berlusconi è chiamato a questa nuova, grande prova per compiere il
processo avviato dodici anni fa. Allora lasciò intravedere un ruolo
attivo della borghesia italiana, rivalutandola come la classe capace di
elaborare e realizzare un progetto di sviluppo. L’esercito delle partite
iva si disse, volendo intendere un gruppo compatto di produttori di beni.
In questi anni – a cavallo dei due ultimi papati e per impulso di
entrambi – si è compreso che, oltre ai beni, occorre produrre
valori per dare all’uomo una dimensione equilibrata fra bisogni materiali
e dello spirito. Alla formazione dell’alleanza si deve lavorare, restituendo
alla politica un ruolo rilevante nella formazione delle coscienze. Per far
esplodere questa miscela non serve un partito con regole disciplinari e
gerarchie fasulle, serve un grande movimento di popolo che trascini le rassegnate
schiere delle organizzazioni oggi in campo. È una sfida nuova per
rompere l’assedio. Non puntiamo a sopravvivere, vogliamo vincere.
Domenico Mennitti, sindaco di Brindisi, presidente della Fondazione Ideazione.
(c)
Ideazione.com (2006)
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