Se il crollo dell’impero comunista tra il 1989 ed il 1991 poté apparire improvviso, esso fu in realtà preceduto ed in parte motivato dagli scacchi che aveva subìto nei decenni precedenti l’ideologia che ne costituiva il fondamento e gli dava legittimazione. Parodiando Napoleone – «la rivoluzione è un’idea che ha trovato delle baionette» – si può dire che il marxismo-leninismo era un’ideologia che nel 1917 aveva trovato uno Stato o, piuttosto, si era impadronita di uno Stato ed in seguito di numerosi altri. Non si vuole riaprire una vecchia questione, discussa praticamente sin dal novembre del 1917, che si può esprimere nei seguenti termini: sino a che punto, divenendo Stato, quella ideologia si era trasformata, accogliendo in sé caratteri e tendenze che appartenevano alla storia e alla tradizione dello Stato russo-zarista che lo aveva preceduto? Quale che sia la risposta a tale interrogativo, resta il fatto che in ogni caso lo Stato-ideologia comunista aveva acquisito sufficienti tratti peculiari per porsi come qualcosa di notevolmente differente dagli altri membri della comunità internazionale. La caratteristica più evidente e più importante riguardava per l’appunto i suoi fini, d’altronde chiaramente dichiarati, che erano non già o non soltanto quelli comuni a tutti gli Stati, consistenti nell’organizzare all’interno la vita dei cittadini e nel perseguire sul piano internazionale gli “interessi nazionali” (qualunque cosa si intenda con questa espressione). Lo Stato-ideologia si poneva come scopo anche, se non principalmente, la realizzazione delle idee di Marx nella interpretazione di Lenin, vale a dire aveva l’ambizione di creare in tutti i paesi del mondo una società da cui fossero aboliti, una volta per tutte, il potere della borghesia e lo stesso sistema capitalistico. Tuttavia la realizzazione di tale obiettivo, data l’asserita natura di “scienza” della dottrina, era allo stesso tempo la verifica d’un processo dialettico preteso inevitabile ed il prodotto dell’azione di coloro che dicevano di averne preso chiara coscienza. Uno dei contributi di Lenin alla dottrina consistette – come è noto – nel particolare accento posto sul valore dell’azione, cioè sul volontarismo, anche come reazione alle interpretazioni troppo deterministiche, e per Lenin fataliste ed in definitiva smobilitanti, della Seconda Internazionale. Ne discendeva che ogni azione dello Stato comunista doveva avere un nesso diretto con l’ideologia, nel senso che ad essa doveva ispirarsi e da essa essere giustificata. Erano evidenti i vantaggi per i dirigenti che potevano inquadrare la loro politica in un’ampia prospettiva, la quale diveniva la marcia stessa della storia. Ogni singola decisione acquisiva perciò una validità filosofica. In una situazione data essa era l’unica “giusta”. D’altro canto, con quel metro doveva essere misurato qualsiasi altro avvenimento, che anzi diveniva addirittura prevedibile e previsto da chi disponeva di quel formidabile strumento che era la dottrina marxista-leninista. Per dirla con le parole, non prive di un certo patetico candore, di un interprete autorizzato: «Il marxismo-leninismo permette di predire con esattezza, di analizzare con profondità e sotto tutti i rapporti la marcia degli avvenimenti nel mondo»1. Già Lenin aveva rivelato che «la dottrina di Marx è onnipotente perché è giusta; armoniosa e completa essa dà agli uomini una concezione coerente del mondo».
Non c’è
azione senza ideologia
In quanto guida all’azione, l’ideologia tuttavia era usata come uno
strumento abbastanza flessibile, dato che tutte le azioni dello Stato e del
partito potevano essere presentate da chi le compiva, che era anche l’unico
interprete autorizzato della dottrina, come coerenti con essa ed anzi come
le sole concepibili nella particolare situazione. Certo il risultato poteva
essere e fu spesso diverso da quello che si diceva ne dovesse
inevitabilmente derivare; in questo caso se ne sarebbe attribuita la
responsabilità non già alla dottrina, ma a colui o a coloro che non avevano
saputo usarla nella specifica circostanza. Non era mai lo strumento ad
essere inadatto o inadeguato, ma chi non lo aveva usato in modo corretto.
Quando però si trattava di utilizzare l’ideologia come interpretazione di una realtà indipendente, le cose si complicavano singolarmente. C’era – è vero – la scappatoia di considerare la smentita dei fatti come una fase intermedia e provvisoria e di spostare in un momento ulteriore la conclusione, ma non sempre alla fine del periodo la recalcitrante realtà rientrava nell’ordine voluto dalla dottrina. Per esempio, la previsione che la Germania del primo dopoguerra sarebbe diventata uno Stato socialista (cioè comunista) fu clamorosamente smentita dall’avvento del nazionalsocialismo, ma gli ideologi del Comintern sostennero che quella conclusione era provvisoria e che il fausto evento da loro previsto si sarebbe in ogni caso inevitabilmente verificato. Bastava aspettare e naturalmente agire per accelerarne l’avvento.
Anche il marxismo pre-leninista aveva le sue pretese profetiche, ma la mancanza di una fonte unica e coattiva di interpretazione faceva sì che le smentite della realtà alle previsioni di Marx fossero immediatamente rilevate e commentate dagli avversari e dai seguaci che in certo modo arricchivano aggiornandola la dottrina, come avvenne con il revisionismo di Bernstein, anche se ne scuotevano l’asserita certezza scientifica. Fu d’altronde contro questa situazione che il giovane Lenin era insorto, sviluppando un sistema che fosse ortodosso e perciò unico e indiscutibile. E quale modo migliore per rendere indiscutibile una verità se non imponendola con gli strumenti di uno Stato moderno? C’era però anche il rischio di trascinare quello Stato nelle giravolte a cui i teorici erano costretti per sostenere che, malgrado le apparenze, la realtà si era adeguata alle previsioni della dottrina. Le smentite – come si è detto – avevano origine in modo più evidente in eventi esterni, provenivano cioè da Stati, gruppi, individui che sfuggivano al controllo dello Stato comunista o che ad esso riuscivano a sottrarsi. Avvenimenti del genere divenivano sempre più numerosi man mano che il campo d’azione dell’Unione Sovietica si era andato allargando; l’ideologia doveva occuparsi di avvenimenti sempre più numerosi, e la quantità delle smentite che aveva dovuto subire era aumentata in misura esponenziale.
Il
dogmatismo alla prova della realtà
Prenderemo dapprima in considerazione soltanto tre gruppi di dogmi: quelli
relativi ai rapporti tra l’urss e il mondo capitalista e che comprendevano
il problema della guerra; quelli relativi ai rapporti tra l’urss e i paesi
socialisti; quelli concernenti i rapporti tra gli Stati del campo
“socialista”. Come si vedrà, i tre gruppi, e specialmente gli ultimi due,
erano strettamente legati. Tratteremo infine di un dogma, che era alla base
di tutta l’ideologia: quello della dittatura del proletariato. Secondo
Lenin, che aveva largamente attinto alle opere dell’inglese John Atkinson
Hobson e dell’austro-tedesco Rudolf Hilferding, il capitalismo, specie
quello finanziario, avrebbe moltiplicato le guerre a causa delle rivalità
coloniali degli Stati e, così facendo, si sarebbe scavato esso stesso la
fossa per dar luogo al socialismo. Sempre in base alla speculazione
leninista, una o più guerre di Stati capitalisti contro l’urss sarebbero
state inevitabili: «L’esistenza della repubblica sovietica accanto agli
Stati imperialisti è alla lunga inconcepibile [...]. Una serie di paurosi
scontri tra la repubblica sovietica e gli Stati borghesi sarà inevitabile»2.
L’urss avrebbe avuto l’accortezza di attendere il momento propizio per fare
o accettare il conflitto: «Sino a quando rimaniamo economicamente più deboli
del mondo capitalista, dobbiamo attenerci alla regola di utilizzare al
meglio le sue contraddizioni e le sue antitesi; non appena saremo abbastanza
forti lo prenderemo alla gola»3.
Quando la guerra scoppiò realmente, essa coinvolse effettivamente alcuni paesi capitalisti (Francia, Gran Bretagna e Germania) e con ciò una delle previsioni sembrò essere stata azzeccata. Tuttavia l’unico paese socialista allora esistente si trovò al fianco dello Stato aggressore, con il quale aveva concluso un patto segreto e si era spartito vaste regioni della Polonia, del Baltico e dell’Europa Orientale. Nulla del genere era stato previsto da Lenin... È interessante notare che per il patto Ribbentrop-Molotov non fu invocata dai sovietici una copertura ideologica e che per giustificare la spartizione della Polonia si fece ricorso non già alla dottrina ma alla necessità di forte sapore nazionalistico, se non addirittura razzistico, «di venire in soccorso dei nostri fratelli di sangue, ucraini e bielorussi, abbandonati alla loro sorte»4. Altro strappo all’ideologia si ebbe con l’appello di Stalin nel momento del pericolo alla Santa Madre Russa, con richiesta di soccorso anche alla Chiesa ortodossa.
Ovviamente la smentita più clamorosa al dogma consistette quindici anni dopo nella denuncia kruscioviana della condotta criminale di Stalin perseguita per più di tre decenni. Dal punto di vista della dottrina nessun ideologo fu mai in grado di spiegare come deviazioni, errori ed orrori causati dal successore di Lenin fossero potuti avvenire; quali erano state le strutture che li avevano provocati, quali i rapporti delle forze produttive, quali le leggi obiettive a cui aveva obbedito la presa del potere da parte di Stalin, e quindi la sua divinizzazione e il fatto che la sua volontà si fosse imposta su tutto il partito. Erano tutti aspetti che sfuggivano alla pretesa dialettica marxista e ponevano al centro di un evento storico di importanza epocale la personalità di un eroe non dissimile, a prescindere dal particolare tipo di malvagità, da quella di un Hitler. Se per quest’ultimo si era detto che egli era stato l’emanazione delle forze di un malvagio capitalismo che non voleva morire, come spiegare Stalin? Rispondendo un anno dopo ai critici occidentali, gli ideologi sovietici ribatterono: «I nostri nemici asseriscono che la figura di Stalin non è stata generata da definite condizioni storiche che sono già superate, ma dal sistema sovietico stesso, da ciò che essi considerano mancanza di democrazia, eccetera. Queste affermazioni calunniose sono smentite dall’intera storia dello sviluppo dello Stato sovietico»5. Una spiegazione che era una petizione di principio.
Fu quello stesso Kruscev, che aveva messo a nudo la fallacia della dottrina a proposito dell’importanza della personalità del singolo nel corso degli eventi storici, a modificare gli schemi di Lenin e Stalin ed a costruire un nuovo sistema, anch’esso naturalmente scientifico, fondato sulla teoria delle guerre. Restavano sempre, secondo il nuovo ideologo, quelle «volute dagli imperialisti per impadronirsi di territori altrui e saccheggiare le ricchezze degli altri popoli»; c’erano poi «le guerre locali, provocate da certi ambienti imperialisti che, temendo complicazioni mondiali, investivano i loro capitali in conflitti limitati»6; venivano infine le guerre di liberazione nazionale «che ci saranno sino a che esisterà il capitalismo». Nei confronti di queste ultime «i comunisti avrebbero sempre avuto un atteggiamento favorevole»7. Era così smentita la tesi di Lenin sulla inevitabilità delle guerre dei capitalisti contro l’urss. Spiegazione: «Le possenti forze economiche e politiche ed i mezzi formidabili dell’urss possono impedire agli imperialisti di scatenare la guerra e possono infliggere agli eventuali aggressori una bruciante sconfitta»8.
Non ci sarebbe stato però neanche bisogno di giungere a tanto, dato che «la lotta rivoluzionaria delle masse popolari nelle condizioni di coesistenza pacifica degli Stati con differenti sistemi sociali “eliminerà il capitalismo, ostacolo principale sul cammino dello sviluppo progressivo della società umana”»9.
Non sembra che l’elencazione kruscioviana delle guerre sia stata modificata dai suoi successori, malgrado essa si sia dimostrata immediatamente fallace. Non ci fu nessuna guerra tra gli imperialisti per impadronirsi di territori altrui, anzi continuò e si completò la decolonizzazione; nessuna guerra locale fu provocata dagli Stati occidentali e, quanto alle “guerre di liberazione nazionale”, quelle fomentate dall’urss e da suoi associati (come a Cuba e in Africa) si esaurirono nel corso di alcuni anni. Kruscev ed i suoi successori sostenevano che tra i paesi socialisti non ci sarebbero stati contrasti, ma anche qui furono smentiti – si può dire – senza interruzione. Vi furono infatti tensioni sia per motivi tradizionali (questioni economiche, territoriali, etniche, eccetera), sia per motivi totalmente nuovi, come guarda caso l’interpretazione della dottrina. Si ebbero gli scontri sull’Ussuri tra urss e Cina e non mancarono – com’è noto – vere e proprie guerre, una delle quali portò all’occupazione della Cambogia da parte delle truppe vietnamite.
Se, in base alla dottrina, non erano concepibili conflitti tra Stati socialisti, la sola spiegazione del fatto che essi si fossero verificati poteva essere fornita dall’improvvisa scoperta che almeno uno dei due o più Stati in guerra non era affatto, come si era sostenuto per lungo tempo, socialista. Nel caso del regime di Pol Pot non si giunse a sostenere esplicitamente che la Cambogia era divenuta uno Stato capitalista che, in quanto tale, avrebbe aggredito il Vietnam, ma si preferì lasciare nel vago la sua natura e ci si limitò a notare che le autorità cambogiane eseguivano «i piani segreti [...] di coloro che avversavano la vittoria del Vietnam, la sua unificazione, la sua avanzata nella costruzione del socialismo ed il suo prestigio internazionale»10. Chi fossero questi tenebrosi mestatori rimase avvolto nel mistero. I paesi capitalisti o la Cina che «usava i dirigenti cambogiani – lo suggeriva un articolo pubblicato dalla stessa Pravda sei mesi dopo – come sicari per realizzare le sue mire egemoniche»11? Al momento della caduta di Phnom Penh la Tass accusò Pol Pot di aver capeggiato una cricca reazionaria. Si era venduto agli imperialisti o si era egli stesso, da solo, trasformato da rivoluzionario in reazionario? Strana metamorfosi contraria alla natura stessa della dialettica, le cui leggi “obiettive” finivano per dipendere dalle scelte di un uomo. Era in certo senso un secondo caso Stalin ed una nuova smentita ad uno dei dogmi più importanti. Tuttavia la condanna di Stalin non era stata così grave come quella inflitta a Pol Pot, che aveva investito e scomunicato tutto il suo sistema non più considerato socialista.
L’impenetrabile cortina del silenzio
In generale gli strappi all’ideologia che riguardavano l’urss trovavano se
non delle giustificazioni almeno un silenzio che si risolveva in una sorta
di assoluzione, mentre quelli dei paesi minori del “campo” erano trattati
con grande severità. Certo il fatto stesso che quegli strappi avvenissero
costituiva una smentita alla validità della dottrina. Che poi essi avessero
“costretto” l’urss ad interventi militari, in Ungheria nel 1956 e in
Cecoslovacchia nel 1968, non eliminava ma anzi aggravava lo scacco
ideologico. Gli interventi sovietici erano stati infatti necessari oltre che
per ragioni politiche e militari anche per evitare che le eresie si
consolidassero e si diffondessero. Eresie peraltro che, pur non
allontanandosi dal dogma, lo distruggevano alla radice perché dimostravano
che era possibile invertire la marcia del “progresso” e che questo non era
marxisticamente irreversibile.
Tra il caso ungherese, quello cecoslovacco e, negli anni 1970-1980, il polacco vi furono notevoli differenze. Quella d’Ungheria fu nelle sue motivazioni profonde una rivolta nazionale nella tradizione di Kossuth e di Petöfi, non soltanto antisovietica ma anche antisocialista, pur se i suoi ispiratori tentarono di conservare per quanto possibile una certa immagine di ortodossia, soprattutto per non prestare il fianco alle accuse di tutti i comunisti del mondo di essere strumenti dell’imperialismo, del capitalismo, dell’horthysmo e naturalmente del fascismo. Fu per questo che la guida fu lasciata al partito, anche se rinnovato negli uomini ed in certi principi quali l’autogestione ed il neutralismo, già ammessi per gli jugoslavi. Non erano stati gli stessi sovietici ad affermare la legittimità di «diverse vie di sviluppo socialista in paesi differenti»? Non avevano affermato che «qualsiasi tendenza di un partito o di uno Stato di imporre i suoi punti di vista sulle vie e sulle forme di sviluppo socialista era estranea al marxismo-leninismo»12? Se si era riconosciuto alla Jugoslavia di Tito il diritto ad un’esperienza originale, perché esso non poteva essere riconosciuto all’Ungheria? Per varie ragioni, secondo Mosca. Anzitutto la Jugoslavia era il figliol prodigo da riaccogliere e per il quale valeva la pena sacrificare il vitello grasso di qualche concessione ideologica; all’Ungheria bisognava invece impedire di allontanarsi dalla famiglia e di acquistare nuove abitudini, tanto più perché, oltre alle iniziative di tipo jugoslavo, i magiari ne avevano prese altre, come la rinascita dei vecchi partiti, la pubblicazione di giornali indipendenti, la formazione di sindacati spontanei, la cui stessa esistenza dimostrava la fallacia della pretesa rappresentanza degli interessi dei lavoratori da parte del partito comunista.
Il caso cecoslovacco apparve più grave per certi aspetti, meno per altri. Formalmente infatti i tentativi di modifica furono fatti dal partito, la cui funzione di guida non venne mai meno, né esso diede l’impressione di rinunziarvi, né fu minacciato dall’esterno. In questo senso la cosiddetta Primavera di Praga si presentò sotto vesti più ortodosse dell’autunno tragico di Budapest. Ma proprio in questa sua apparenza stava il pericolo che allarmava i sovietici. Il partito continuava a guidare il paese, ma verso quale direzione? La funzione egemonica ha senso se il partito agisce leninisticamente per rafforzare le strutture socialiste nel campo economico ed in quello sociale; se esso, invece, con il pretesto di assumere un volto umano, concede la possibilità ai suoi nemici di alzare la voce – si pensi per esempio all’esame spregiudicato della storia della Cecoslovacchia dal 1919 al 1948 iniziato da certi studiosi e giornalisti– e se permette un riesame che, partendo dal passato prossimo, giunge a mettere in discussione le fondamenta stesse del sistema, allora la funzione egemonica è usata in maniera distorta e coloro che la esercitano vanno sostituiti. L’Unione Sovietica era stata chiara il 15 luglio del 1968 a Varsavia, quando aveva fatto firmare ai suoi alleati una lunga dichiarazione per ricordare al partito comunista cecoslovacco che esso doveva anzitutto «restare fedele al principio leninista del centralismo democratico, abbandonando il quale il partito e la sua funzione di guida si indeboliscono». Dalla violazione di questo dogma derivava tutto il resto, sino alla necessità dell’invasione. Infatti «il mancato controllo delle leve del potere metteva a repentaglio le conquiste storiche e minacciava le basi del socialismo ed i vitali interessi degli altri paesi comunisti» e, poiché dalla forza del sistema socialista in ogni paese dipendeva quello di tutto il campo socialista, ogni partito era «responsabile non solo di fronte alla sua classe lavoratrice, ma anche verso tutto il movimento comunista mondiale», che aveva il diritto di difendere il socialismo e le posizioni internazionali dell’intera comunità socialista. Era la premessa alla dottrina della sovranità limitata formulata nel novembre successivo a Varsavia13.
Il caso polacco, in realtà, pur se non diede luogo a interventi diretti, fu più grave dei precedenti perché la smentita dei dogmi non venne dall’interno del partito, dove poteva essere bene o male recuperata, o almeno tacitata; venne dalla società, si sviluppò fuori e contro il partito travolgendo gli idola su cui si basava il potere. Esso dimostrò che la classe operaia considerava la classe dirigente, il partito ed il governo suoi nemici, distrusse l’equivoco del sindacato ufficiale, proclamò a chiare lettere che lo Stato comunista non era una “dittatura del proletariato”, ma quella di una classe che Djilas aveva già descritto un quarto di secolo prima14 e che Pareto e Michels avevano previsto all’inizio del Ventesimo secolo15. Gli avvenimenti polacchi smentirono anche la pretesa superiorità del socialismo sul capitalismo nel campo economico. Essi rivelavano la cattiva gestione delle risorse e delle finanze, la corruzione, le ingiustizie anche nella redistribuzione del reddito, le discriminazioni che si verificavano nelle società comuniste. A tutto ciò si accompagnavano gli enormi debiti accumulati dall’urss e dai suoi satelliti nei confronti di molti Stati occidentali.
A tutti questi fatti – motivi per così dire obiettivi di scandalo – si era aggiunto l’atteggiamento soggettivo del sindacato libero Solidarnosc e dei suoi dirigenti che, conquistato il diritto a organizzarsi per tutelare i loro interessi puramente economici, diedero un ulteriore colpo di piccone al leninismo dimostrando, a differenza di quanto quasi ottant’anni prima era stato spiegato da Lenin nel suo Che fare?, che del sindacato il lavoratore finiva per servirsi anche per avanzare rivendicazioni politiche. Nel caso concreto quelle rivendicazioni erano, dato il contesto in cui venivano formulate, propriamente rivoluzionarie. E quando si giunse a chiedere libere elezioni si affermò implicitamente, ma senza ombra di dubbio, che quelle che si erano tenute per più di un trentennio erano state tutt’altro che libere. Ad avanzare una siffatta richiesta fu un’organizzazione che raggruppava dieci milioni di lavoratori e ciò non poteva non dare un violento scossone alle fondamenta dello Stato socialista e soprattutto alla funzione dirigente del Partito comunista, che era stata sempre considerata la pietra angolare del sistema, anzi – come diceva Brezhnev – “il punto nevralgico della lotta che oppone i marxisti-leninisti alle diverse forme del revisionismo»16. E con ragione, dato che il partito doveva essere l’avanguardia della classe operaia e rappresentarne le istanze e gli interessi, o almeno così sarebbe dovuto essere se le cose si fossero svolte come “scientificamente” era stabilito. Ma la realtà e gli uomini – i lavoratori in particolare – continuarono ostinatamente a comportarsi in maniera contraria a quanto previsto o prescritto dal marxismo-leninismo. Quella polacca fu un’ennesima e non ultima prova dell’infondatezza della pretesa scientifica del marxismo-leninismo.
Che il marxismo abbia – come sosteneva lo stesso Marx – cambiato il mondo è fuor di dubbio. Ciò si può dire di molti altri movimenti filosofici; nel caso del marxismo tuttavia il cambiamento non è affatto avvenuto nel senso previsto e voluto dai padri e dagli interpreti della dottrina e dai loro continuatori. Le trasformazioni non si sono fermate al punto in cui i marxisti speravano; esse sono continuate distruggendo anche quel poco che con sforzi dialettici spesso eroici poteva farsi rientrare nello schema ideale di sviluppo della realtà. Gli ideologi hanno dovuto far ricorso sempre più frequentemente alla «complessità della situazione», alle «contraddizioni non-antagonistiche» o «alla debolezza delle menti umane degli stessi interpreti, non sempre in grado di utilizzare correttamente lo strumento infallibile a loro disposizione»17. Purtroppo anche questo escamotage era inutilizzabile e si dimostrava tutt’altro che convincente.
Nei paesi comunisti, tuttavia, c’erano ancora molti elementi convincenti: la polizia, il partito con tutte le sue ramificazioni, l’incessante propaganda mirante a dimostrare che il potere apparteneva alla popolazione e non ai dirigenti del partito. In tutte le costituzioni era chiaramente affermato che la funzione egemonica apparteneva al partito, che da solo rappresentava tutti i lavoratori, ed ormai tutti i cittadini appartenevano a quella categoria. Sino a quando, malgrado le smentite a tutti gli altri principi, resisteva il dogma della dittatura del proletariato, i regimi si consideravano solidi e sicuri.
La dittatura
del proletariato: alle origini del dogma
Ma quali erano le origini di tale dogma, qual era il significato che esso ha
in Marx ed Engels, quali sono state le interpretazioni fornite dai loro
seguaci a cominciare – beninteso – da Lenin? Soltanto alla luce di un tale
esame si potrà vedere la funzione svolta da quel concetto nel loro pensiero
e nel mantenimento del sistema comunista.
Si ritiene abitualmente che l’espressione dittatura del proletariato sia stata ispirata a Marx da Blanqui. Ciò risulterebbe tra l’altro da un passaggio delle Lotte di classe in Francia, 1848-1850, nel quale Marx scriveva: «Il proletariato si raggruppa sempre più attorno al socialismo rivoluzionario, attorno al comunismo, per il quale la borghesia stessa ha inventato il nome di Blanqui. Questo socialismo è la dichiarazione della rivoluzione permanente, la dittatura di classe (Klassendiktatur) del proletariato, come un punto di transizione necessaria verso l’abolizione di tutti i rapporti sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, la trasformazione di tutte le idee che derivano da questi rapporti sociali»18.
Quale che sia la verità circa l’ascendenza blanquista dell’espressione – lo studioso Hal Draper ha sostenuto in un suo saggio che nel passo sopra riportato Marx esponeva il suo punto di vista e non quello di Blanqui – il concetto era già stato esposto nel Manifesto dei comunisti da Marx quando affermava che il proletariato, dopo essersi impadronito del potere, «deve servirsi della sua supremazia politica per strappare gradualmente ogni tipo di capitali alla borghesia, per centralizzare tutti gli strumenti nelle mani dello Stato e del proletariato organizzato in classe dominante. Naturalmente tutto ciò non può farsi che per mezzo di interventi dispotici contro il diritto di proprietà e i rapporti di produzione borghesi».
Qui si parla della dittatura del proletariato, anche se non ne viene usata l’espressione; essa d’altronde non s’incontra frequentemente nell’opera di Marx. Il Draper, nello studio citato, sostiene che essa fu utilizzata da Marx non più di una dozzina di volte. Il passo più conosciuto (non il primo) – e di interpretazione meno controversa – è quello piuttosto tardo (1875) usato nella Critica del programma di Gotha. È evidente che tra il 1848 ed il 1875, Marx aveva evocato in varie occasioni il concetto, pur impiegando termini quasi sempre diversi e di preferenza la parola “dominio” (Herrschaft) per indicare il potere del proletariato. Questo fatto ha ovviamente creato dei problemi d’interpretazione. Intendeva egli la stessa cosa quando parlava di Herrschaft e quando parlava di Diktatur? Con quest’ultimo termine non voleva forse sottolineare in modo particolare la provvisorietà del potere assoluto, delle misure dispotiche temporanee? Diktatur, dal latino dictator evoca infatti – o almeno dovrebbe evocare – una magistratura temporanea come quella della repubblica romana, prevista dalle leggi per far fronte a situazioni eccezionali. Pur avendo come effetto di sospendere il funzionamento di alcuni istituti, essa restava dunque pienamente costituzionale. Questa interpretazione – legittimità, provvisorietà, necessità per far fronte a circostanze eccezionali – applicata al pensiero di Marx, anche se non confermata ma neppure inficiata da quanto egli scriveva il 5 marzo 1852 a Joseph Weydermeyer («la lotta di classe conduce necessariamente alla dittatura del proletariato»), conviene al passo, a cui si è già accennato, della Critica al programma di Gotha, forse il più esplicito sull’argomento19: «Tra la società capitalistica e quella comunista vi è il periodo della trasformazione dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche il periodo politico di transizione, durante il quale lo Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato».
In generale si può affermare che la dittatura del proletariato si inserisce nella previsione di Marx nel modo seguente: quando la società borghese, esaurite le sue potenzialità, avrà sviluppato le sue contraddizioni e gli antagonismi, che essa stessa nella sua marcia apparentemente trionfale avrà prodotto, e quando, nel contempo, la classe oppressa sorta nel grembo del capitalismo avrà raggiunto con la coscienza della sua oppressione la sua maturità rivoluzionaria, si avranno la rottura rivoluzionaria delle vecchie strutture ed il trasferimento alla collettività dei mezzi di produzione. La dittatura del proletariato si pone, per così dire, al punto di raccordo tra queste due fasi; è il momento in cui dal regno della necessità si passa al regno della libertà; è l’attimo di transizione dalla preistoria alla storia.
Qualcuno ha osservato che non sempre Marx ritenne necessaria questa fase di transizione; talvolta par di capire che per lui il passaggio dialettico sarebbe avvenuto senza momenti intermedi. Così, per esempio, nella Miseria della filosofia (1847) egli aveva sostenuto che «dopo il crollo della società (borghese), non vi sarà una nuova dominazione di classe, configurantesi in un nuovo potere politico», dato che «l’emancipazione della classe lavoratrice è l’eliminazione di ogni classe». E aveva aggiunto: «All’antica società la classe lavoratrice sostituirà nel corso del suo sviluppo un’associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo. E non ci sarà nemmeno più il potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente la consacrazione ufficiale dell’antagonismo che lacera la società».
Si potrebbe cercare di superare la difficoltà sostenendo che è “nel corso dello sviluppo” della classe lavoratrice che si pone la fase della dittatura del proletariato; essa corrisponderebbe così con il momento rivoluzionario e pertanto, nel perpetuare ancora brevemente lo Stato, si porrebbe più come l’epilogo della società borghese che come l’inizio di quella che le succederà. È questa la posizione che assumeva Engels quando scriveva: «Poiché lo Stato è un’istituzione temporanea, che siamo costretti a utilizzare nella lotta e nella rivoluzione per reprimere con la forza gli avversari, è del tutto assurdo parlare di uno “Stato popolare libero”: sino a quando il proletariato avrà ancora bisogno dello Stato non è per la libertà ma per la repressione dei suoi avversari»20.
Da qualunque lato si osservi, sembra dunque che il principio della dittatura del proletariato sia ben presente nella costruzione di Marx e di Engels; tuttavia il problema sarà risolto solo quando sarà chiarito quale sia la sua natura e quali siano i suoi limiti. E qui si incontra nuovamente Blanqui, ma Marx lungi dal citarne con favore le idee, le contesta radicalmente. La concezione blanquista era considerata da Marx ai limiti della follia; nulla poteva essere più lontano dal “socialismo scientifico” della convinzione che per fare la rivoluzione bastasse semplicemente farla, senza studiarne le condizioni obiettive, economiche e politiche, senza attendere che il proletariato, sola classe per sua natura rivoluzionaria, maturasse la sua coscienza di classe. L’idea di uno o più “kamikaze” rivoluzionari era agli antipodi del marxismo e Marx doveva trovare una conferma del suo giudizio nel fatto che Blanqui finisse per trascorrere gran parte della sua vita dietro le sbarre di varie prigioni. «Nella sua attività politica – ha scritto Engels – Blanqui è stato essenzialmente un “uomo d’azione”, fiducioso nel fatto che una piccola minoranza ben organizzata, che tentasse ad un certo momento un colpo di mano, potrebbe scuotere le masse e riportare dei successi immediati, facendo così una rivoluzione vittoriosa. Dalla concezione blanquista del colpo di mano deriva necessariamente che una dittatura si impone in seguito alla rivoluzione vittoriosa. Dittatura – bisogna precisare – non di tutta la classe rivoluzionaria, cioè del proletariato, ma del piccolo pugno di uomini che hanno organizzato il colpo di mano e che finiscono per essere loro stessi soggetti alla dittatura di uno o pochi individui». È evidente che un tal genere di dittatura, imposta da una minoranza all’immensa maggioranza della popolazione, del proletariato e degli stessi rivoluzionari, avrebbe dovuto essere estremamente violenta.
La concezione marxista è totalmente diversa: la rivoluzione matura lentamente nel grembo della società borghese e questa deve prima sviluppare tutte le sue potenzialità perché la sua funzione sia esaurita. Quand’anche si sia riusciti a scoprire la legge del movimento – come ha fatto il marxismo – né questa né nessun’altra speculazione intellettuale o azione concreta possono permettere di saltarne alcuna fase. La violenza «può solo abbreviare ed alleviare i dolori del parto della nuova società». Come la natura, la società, secondo Marx, «non facit saltus».
Da ciò deriva che la dittatura del proletariato, intervenendo quando le condizioni sono mature, dovrebbe essere non soltanto brevissima, ma anche relativamente poco violenta, come qualcosa che si limita a rendere più facile un evento per così dire naturale. È a questo punto che, anche a proposito del concetto di dittatura del proletariato, emerge l’ambiguità di fondo del marxismo, la contraddizione che deriva dai suoi due aspetti essenziali: quello deterministico e quello volontaristico. Quanto più naturale è infatti il trapasso dal capitalismo al socialismo, tanto più largo (“immenso” è l’aggettivo usato nel Manifesto) è il numero degli oppressi che, liberandosi, liberano l’intera società, tanto minore è il numero di coloro su cui bisogna esercitare i despotische Eingriffe e tanto meno violenta dovrebbe essere per conseguenza la transizione. Ciò spiega come nel suo discorso del settembre 1872 agli operai di Amsterdam, Marx abbia avanzato la previsione che in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, paesi di capitalismo più avanzato e maturo, «si giungerà al socialismo in maniera pacifica». Ed Engels, vent’anni dopo, scriveva che «si può concepire che la vecchia società evolva pacificamente nella nuova nei paesi in cui la rappresentanza popolare concentra in sé tutti i poteri»21.
In definitiva quanto più si aderisce a questa interpretazione del marxismo e della dittatura del proletariato, tanto più questa deve esser considerata provvisoria e “democratica”, servendo essa soltanto a neutralizzare gli scarsi resti della classe borghese, presto debellati. A questa interpretazione si suole talvolta opporre quella che può trarsi dagli scritti di Marx giovane, cioè di prima del 1850, nell’epoca in cui il lento processo di differenziazione dal blanquismo e le illusioni quarantottesche non lo avevano ancora condotto ad un’elaborazione totalmente originale di questa parte del suo pensiero. Non sembra tuttavia dubbio che l’interpretazione antiblanquista sia la più coerente con tutto il sistema e la speculazione di Marx e di Engels, non solo per ciò che riguarda quanto sino a ora si è detto, ma anche per ciò che concerne coloro che avrebbero dovuto concretamente esercitare la dittatura del proletariato. Per Blanqui la risposta era chiara: essi sarebbero stati gli appartenenti al gruppo di rivoluzionari che avevano fatto il loro “colpo di mano” vittorioso, in nome ovviamente del proletariato.
Per Marx le cose non erano così semplici. Dittatura del proletariato significava dittatura non già dei rappresentanti dei proletari ma, nel senso letterale del termine, di tutti i membri del proletariato. Vero è che egli parla talvolta di “partito”, ma mai per sostenere che esso dovrebbe esercitare la dittatura in nome o in rappresentanza del proletariato; in ogni caso il termine non designa mai alcuna delle piccole o grandi associazioni comuniste di cui egli era mentore, se non uno dei dirigenti. Per Marx “partito” non ebbe mai l’accezione leninista di gruppo ristretto di rivoluzionari professionali, che rappresentano la coscienza del proletariato e del quale essi stessi non fanno necessariamente parte. Già nel 1848 egli aveva scritto: «I comunisti non formano un partito separato in conflitto con altri partiti della classe operaia [...] Essi non formulano alcun principio speciale in base al quale desidererebbero forgiare il movimento proletario”22. Essi non sono separati – neppure come “avanguardia” – dalla classe operaia né durante la lotta né nella fase della dittatura del proletariato. Questo corollario discende non solo dal concetto, più volte esplicitamente affermato da Marx, che l’emancipazione della classe operaia deve essere opera di tale classe e non di un suo partito, ma – a suo dire – anche dal fatto che l’organizzazione necessaria per conquistare il potere politico deriverà dalle lotte economiche della stessa classe operaia.
Ed ancora più esplicitamente, nel citato Programma dei rifugiati blanquisti del 1874, Engels affermava: «Marx ha detto ai blanquisti: noi vogliamo la dittatura della classe e non quella del partito rivoluzionario», uno di quei partiti che egli chiamava con disprezzo “sette”. Ma come può tutta una classe – e non i suoi rappresentanti o un partito che se ne considera il portavoce – esercitare una dittatura o più genericamente il potere? A questo interrogativo la risposta fu data da Lenin, non solo nell’anarchicheggiante Stato e rivoluzione, scritto nel 1917 prima dell’avvento dei bolscevichi al potere, ma anche nel lungo articolo Compiti immediati del potere dei soviet, pubblicato il 28 aprile 1918. «Il nostro compito – egli scriveva – è di far svolgere gratuitamente le funzioni dello Stato da tutti i lavoratori, una volta che essi abbiano terminato le loro otto ore di lavoro nella produzione». È la famosa storia della cuoca che, spenti i fornelli, si occupa paradossalmente degli affari di Stato.
Il
partito-avanguardia e la democrazia popolare
Perché “paradossalmente”? Non solo perché un tale sistema di far esercitare
il potere non ha mai ricevuto neppure un inizio di applicazione, ma anche e
principalmente perché esso è in totale, irriconciliabile contraddizione con
tutto il pensiero leninista. Questo si sviluppò – lo abbiamo ricordato –
come una reazione a quella crisi del marxismo teorico, che esplose negli
ultimi anni del secolo XIX e il cui nome più rappresentativo fu quello di
Eduard Bernstein. In certo modo Lenin accettò i presupposti esposti nelle
Premesse del socialismo ed i compiti della democrazia nel 1899, ma già
circolanti da qualche anno nella letteratura di partito. Ed era evidente in
Europa che le previsioni di Marx non si erano verificate. Il numero dei
“borghesi” non era diminuito affatto, il proletariato non si era
ulteriormente immiserito, le classi intermedie invece di sparire si erano
rafforzate, lo Stato e le classi possidenti avevano acconsentito a fare
delle riforme favorevoli ai lavoratori. A tutto ciò non era estranea,
tutt’altro, la presenza e l’agitazione socialista, ma l’evoluzione
dimostrava che la “catastrofe del sistema” non era affatto inevitabile. In
queste condizioni i socialisti, rinunciando all’attesa della rivoluzione
anche nelle parole (nei fatti ciò era già avvenuto nella socialdemocrazia
tedesca) ed all’azione per avvicinarne l’avvento, per Bernstein ormai
improbabile, dovevano operare all’interno della società capitalista per
continuare a mutarla gradualmente in senso favorevole alle classi
lavoratrici. A questa sorta di abdicazione ci furono delle reazioni: quella
di Sorel, irrazionale e volutamente eterodossa con l’appello al mito dello
sciopero generale e all’azione spontanea delle élite sindacali operaie, e
quella di Lenin, che vuole invece apparire ortodossa, pur accettando
implicitamente la diagnosi di Bernstein. Lenin non nega che il proletariato
lasciato a se stesso avrebbe sviluppato tutt’al più una “coscienza
trade-unionista” tendente ad ottenere dei miglioramenti economici che, se
accolti, avrebbero ancor più disarmato le sue spinte rivoluzionarie; ammette
che le misure adottate dai governi europei hanno allontanato il momento del
crollo del sistema capitalista, ma invece di rassegnarsi sviluppa gli
elementi volontaristici, che nel marxismo si intrecciano a quelli
deterministici e ne sono equilibrati.
Visto che il proletariato nel suo insieme non sembrava affatto intenzionato a distruggere il capitalismo, sarebbe stato il partito a farlo, un partito di gente risoluta, un partito-avanguardia, un partito che, più che fornire una coscienza di classe ai lavoratori, sarebbe stato esso stesso la loro coscienza di classe. Questa teoria del partito, elaborata da Lenin nel 1902, era in realtà tutt’altro che ortodossa, se si tiene conto della posizione critica di Marx e di Engels nei confronti del blanquismo. Ma quel che qui più importa è notare che da essa discendeva una ancor meno ortodossa concezione della dittatura del proletariato. Chi, in conclusione, l’avrebbe esercitata se non proprio il partito? Ed essendo per definizione la dittatura di una minoranza nei confronti della maggioranza, non sarebbe stata necessariamente violenta? «Il concetto scientifico di dittatura – rispondeva Lenin – non significa altro che un potere assoluto, non limitato da alcunché, non disciplinato da alcuna legge, né da alcuna regola assoluta e che riposa sulla forza». Ma chi avrebbe esercitato questa dittatura, che si sarebbe risolta in «una lotta accanita, cruenta, violenta e pacifica, militare ed economica, pedagogica e amministrativa contro le forze e le tradizioni della vecchia società»? La dittatura – era la risposta di Lenin – «è esercitata dal proletariato organizzato nei suoi soviet, diretti dal partito comunista»23. Si sa che i soviet servirono solo da schermo al partito e non contarono mai niente.
Si era così tornati alla concezione, che Marx aveva combattuto, della piccola minoranza che con un colpo di mano si impadronisce del potere – e lo conserva – in nome di una classe rimasta in definitiva estranea al processo. Non era una ironia della storia il fatto che il marxismo , sia pure “interpretato” leninisticamente, si fosse affermato non per mezzo dei sistemi che esso riteneva i soli storicamente “legittimi”, ma con i sistemi dei suoi avversari e che la dittatura instaurata in suo nome, aveva proprio quei caratteri blanquisti, contro cui Marx aveva scagliato i suoi anatemi?
Questa concezione, per cosi dire marxista all’esterno e blanquista all’interno, è nella sua sostanza la sola che fu ritenuta valida e praticata nell’Unione Sovietica. Ed è la stessa che fu proclamata e si tentò di mettere in esecuzione, nel primo dopoguerra, durante le effimere prese di potere dei comunisti in Baviera, Ungheria e Slovacchia. «Dittatura del partito, attraverso i soviet»: era questa, secondo Lenin «la più alta forma di democrazia, l’inizio della forma socialista di democrazia»24. Doveva essere Stalin, che nel 1940 aveva confermato che «la dittatura del proletariato è essenzialmente la dittatura della sua avanguardia, del suo partito»25, a presiedere a una imprevista evoluzione della dottrina alla fine della seconda guerra mondiale. In vari paesi il partito comunista era entrato a far parte di governi “borghesi” e, nei paesi dell’Europa Orientale, anche di “fronti nazionali antifascisti”. Fu proprio in questi ultimi paesi – Bulgaria, Romania, Ungheria, Cecoslovacchia – che si pose il problema. Si era in presenza di nuove dittature del proletariato? No di certo, dato che la “borghesia” esisteva ancora e deteneva almeno una parte del potere. Ma la presenza dei partiti comunisti non cambiava forse la natura di cotesto potere, e dunque dello Stato? Di fronte a questa situazione fu necessario elaborare il nuovo concetto di “democrazia popolare”, che non era «una dittatura di alcun genere» e nella quale «le funzioni di governo erano esercitate dall’enorme maggioranza dei contadini, degli artigiani, dei membri dell’intellighenzia»26. Mai come allora la teoria si allontanò e contraddisse la pratica, poiché nelle Costituzioni di tutti i paesi di “democrazia popolare” il concetto di dittatura del partito comunista era ben presente, anche se avvolto in eufemismi come “guida della classe lavoratrice e del suo partito marxista-leninista” e simili.
I primi colpi al dogma della dittatura del proletariato vennero dai partiti comunisti occidentali: l’eurocomunismo e specialmente il partito comunista francese, il cui segretario generale, Georges Marchais, decise di eliminare ogni riferimento a quel dogma nel programma del XXII congresso del suo partito, ricorrendo a delle spiegazioni a dir poco stupefacenti. «Anzitutto – disse – il termine dittatura evoca i regimi di Mussolini, Hitler, Salazar e Franco, vale a dire la negazione stessa della democrazia»27. Se ne era accorto, anch’egli con notevole ritardo, il filosofo Georg Klaus, che nel 1969 aveva scritto: «Questo termine fa parte dei concetti negativi perché evoca la dittatura del fascismo hitleriano. Esiste nel socialismo scientifico il concetto rigorosamente fondato di dittatura del proletariato, condizione indispensabile della libertà della popolazione dopo la fine del capitalismo, ma [...] sarebbe stupido in un paese borghese spiegare la questione sotto l’aspetto semantico»28.
L’abbandono del dogma in Occidente restava comunque, per dirla con Klaus, un fatto “semantico”; nessuno poteva immaginare che sarebbe entrato prepotentemente nella pratica con l’avvento di Mikhail Gorbaciov nell’Unione Sovietica. Egli non si dedicò a speculazioni filosofiche ma, dovendo far fronte ad una situazione economica ormai vicina al collasso, lanciò quei suoi programmi di perestroika e di glasnost, che costituivano – specie il secondo – il riconoscimento non soltanto del fallimento, ma anche delle inettitudine di tutti coloro che l’avevano preceduto dal 1917 in poi. Si trattava di quelli che avevano esercitato la dittatura in nome del proletariato e la loro implicita sconfessione era anche l’ammissione della fallacia della teoria, che era il fondamento primo – ed ormai ultimo – della legittimità del regime comunista, già crollata nelle “democrazie popolari” sotto la spinta delle popolazioni.
L’impero sovietico è caduto per molte complesse ragioni, tra cui il peso insopportabile delle spese militari (pari al 25 per cento del prodotto interno lordo), l’impossibilità di sostenere la sfida con gli Stati Uniti, il malcontento della popolazione per la mancanza di beni di consumo. È anche vero però che – come aveva avvertito dieci anni prima il filosofo polacco già marxista Kolakowski – «all’ideologia marxista nessuno credeva più»29. Non ci credevano neanche i dirigenti, divenuti coscienti finalmente di aver perduto qualsiasi legittimità. Ciò spiega come tutta la classe politica comunista – dell’urss e dei paesi satelliti – si sia fatta detronizzare quasi sempre senza colpo ferire. È un fenomeno che si è già verificato molte volte nella storia.
Note
1. Sultanov, in La vie internationale, n. 8, Mosca 198°, pag. 145.
2. V. Lenin, Opere, Mosca, 3a ed., vol. 4, p. 122.
3. V. Lenin, Opere, Mosca, 3a ed. Vol. 25, pp. 498-499.
4. Nota sovietica all’Ambasciata polacca, citata da Alexander Werth,
in Russia at war, Londra 1965, p. 76.
5. Dichiarazione sovietica del 30.6.1965, riportata in The
Anti-Stalin Campaign and International Communism, New York, 1957, p. 294.
6. Citato da D. Heller, The Cold War, Derby, 1962, p. 64.
7. Pravda, 25.1.1961.
8. Pravda, 15.1.1956.
9. V. Morozov, “Libro sulle leggi del conflitto armato”, in
Voiennaja Misl n. 7. 1965.
10. Pravda, 8 febbraio 1978.
11. Pravda, 1.8.1978.
12. Dichiarazione sovietico-jugoslava di Mosca del 20.6.1956.
13. V Congresso del partito operajo polacco, 12.11.1968.
14. Milovan Djilas, The new class, New York, 1957.
15. Vilfredo Pareto, I sistemi socialisti, Milano, 1917-1920; Robert
Michels, Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Democratie,
Stoccarda, 1911.
16. Leonid Brezhnev, Rapporto al 24° congresso del pcus, Pravda,
10.3.1980.
17. «È vero che il marxismo si propone di fornirci delle categorie
capaci di farci interpretare scientificamente la società che ci circonda; è
anche vero che noi comunisti [...] non siamo riusciti a valerci
efficacemente di esse per capire la struttura profonda della società [...]
ma ciò dimostra la nostra insufficienza nel far uso di queste categorie, non
la loro mancanza di scientificità» (Ludovico Geymonat, “L’eurocomunismo dopo
la svolta di Marchais”, Corriere della Sera, 15.7.1981.
18. K. Marx e F. Engels, Werke, Berlino 1960, p. 89.
19. K. Marx, “Critica al programma di Gotha”, in Werke, vol. XIX, p.
28.
20. F. Engels, lettera a August Bebel, marzo 1875.
21. F. Engels, Critica al programma di Erfurt, 1891, p. 86.
22. K. Marx, Werke, vol. I, p. 537-538.
23. V. Lenin, “L’estremismo, malattia infantile del comunismo”, in
Oeuvres choisies, vol. II, p. 693.
24. V. Lenin, Selected Works, New York 1943, vol. VII, p. 241.
25. J. C. Stalin, Problems of Leninism, Mosca 1940, p. 660.
26. G. Dimitrov, citato da E. Kardelj, Sulla democrazia popolare in
Jugoslavia, p. 14.
27. G. Marchais, Le Monde, 5.2.1976.
28. “Sémiotique”, in Recherches internationales à la lumière du
marxisme, n. 81, 1969, p. 120-121.
29. L. Kolakowski, “L’esprit révolutionnaire”, Parigi, 1978, citato da
J. Laloi, Le Monde, 4.2.1978.
Alberto Indelicato, storico e saggista, è stato ambasciatore italiano.
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