Ogni
vera scelta è condizionata dall’esercizio di una effettiva
libertà. Impossibile, altrimenti, assumersi l’onere delle conseguenze,
disporsi a rispondere dei risultati, appropriarsi degli effetti e riconoscersi
in essi. La responsabilità, al pari della libertà, accompagna
e caratterizza l’atto della scelta: tanto più quando l’opzione
coinvolge in maniera più o meno diretta la storia e le prospettive
di altri individui.
Cosa accade quando questi individui sono i nostri figli: bambini, ragazzi,
giovani? Parlare di scelta educativa comporta il riconoscimento delle due
componenti: l’apertura delle opportunità e il peso dell’incertezza,
e l’accettazione di entrambe su di sé. Risiede forse qui la
massima parte delle difficoltà a riconoscere l’educazione come
un’azione consapevole, invece che un processo automatico, quasi meccanico,
impersonale: nel quale gli educatori e gli educandi non sono protagonisti,
ma componenti – parti, non partecipi. La differenza tra l’uno
e l’altro approccio non riguarda solo l’interpretazione del
ruolo svolto da pedagoghi, allievi, istituzioni, o dello scopo dell’educazione.
Ha invece a che fare con la nozione stessa dell’uomo: un essere raziocinante
cosciente di se stesso, padrone delle proprie azioni. Per concepire l’educazione
come scelta piena, libera e insieme onerosa, è necessario considerare
la ragionevolezza autocosciente come il dato caratteristico della persona
umana. Questo accade nel pensiero di un filosofo liberale come John Locke,
in cui la visione dell’io come libero, ragionevole, consapevole agente
morale è il correlativo di una pedagogia fortemente orientata alla
responsabilità personale: tanto degli educatori, quanto degli educandi.
La responsabilità dei genitori
Nei paragrafi
centrali della sua opera pedagogica, i Pensieri sull’educazione, Locke
mostra una particolare preoccupazione per il contesto educativo dei bambini.
Sottolineando l’importanza di affidarli nelle mani giuste, mette in
guardia i genitori circa il grave danno che ai bambini potrebbe derivare
dal trovarsi in cattive compagnie. Il riferimento è duplice. Da un
lato, servitori «maleducati o corrotti» possono trasmettere
loro cattivi esempi, tanto più perniciosi in quanto «i fanciulli
[…] operano per lo più secondo gli esempi», molto più
efficaci di qualsiasi regola, punizione o esemplare ramanzina. Ai domestici
«difficilmente si può impedire di intralciare i disegni del
padre e della madre»: sono loro a infondere nei bambini paure immotivate,
nate da infelici invenzioni come quelle dei fantasmi o dei mostri, che per
distogliere da «alcuni loro piccoli falli» danneggiano equilibrio
e serenità. Dall’altro, frequentando le scuole pubbliche, c’è
il pericolo che i bambini possano incontrare compagni «maleducati
e cattivi», che oltre alla disinvoltura e all’abilità
insegnerebbero loro anche la turbolenza e il vizio. In una scuola affollata
è materialmente impossibile per un maestro, per quanto diligente
e accorto, dedicarsi pienamente all’educazione di ciascuno degli alunni:
diventa quindi giocoforza limitarsi alla pura trasmissione delle materie
d’insegnamento, abbandonando a se stesso l’allievo per tutto
il resto. All’argomento che un’istruzione pubblica renderebbe
il fanciullo «più ardito e più capace di muoversi e
di sbrogliarsi tra gli altri ragazzi della sua età», Locke
risponde decisamente, paragonando il presunto beneficio, caro a padri «felici
di vedere i loro figli impertinenti e arditi di buon’ora», al
danno permanente che ne deriverebbe: «Se la disinvoltura e la scaltrezza
arrivano una volta ad associarsi al vizio e ad aiutare i suoi traviamenti,
egli sarà sicuramente perduto: e voi dovrete disfar da capo e strappargli
tutto quanto ha assorbito dai compagni, o abbandonarlo alla rovina».
Domestici
e bambini indisciplinati rappresentano i pericoli di un’educazione
scorretta, che guasta i bambini «sia dando l’esempio di modi
scostumati, sia prodigando loro le due cose che non dovrebbero mai avere:
i piaceri scorretti e la lode». In entrambi i casi, il rimedio risiede
secondo Locke nell’educazione in famiglia e nella compagnia dei genitori.
Lo scopo dell’educazione non è la dimestichezza con gli “usi
del mondo”, ma l’acquisizione della virtù: «perciò
non posso fare a meno di preferire per un giovane gentiluomo l’educazione
domestica, sotto gli occhi del padre e di un buon precettore; come quella
che, se è possibile e opportunamente ordinata, è la via migliore
e più sicura per giungere al grande e principalissimo fine dell’educazione».
Ai genitori tocca il compito di scegliere bene l’istitutore, che –
come vedremo – prima ancora che il latino o il greco deve trasferire
al bambino i principii di giustizia, generosità e temperanza. A questo
scopo, Locke invita a non lesinare mezzi: se è vero che un buon precettore
rappresenta una spesa significativa, è altrettanto vero che non sarà
mai troppo grande a paragone del beneficio che potrà apportare al
fanciullo. L’investimento nell’educazione è il maggiore
e il più importante che si possa compiere per il bene dei figli:
facilmente si può condividere la meraviglia di Locke per coloro che,
più che solleciti nel procurare ai figli abiti di lusso, cibi e alloggi
sontuosi (e diremmo oggi: cellulari, consolle per videogiochi e corredi
scolastici griffati), si mostrano poi parsimoniosi nelle spese per la formazione
dello spirito e l’istruzione (lamentando l’alto costo dei precettori
ieri, e oggi il prezzo dei libri di scuola, che pure nel complesso eguaglia
quello di un cellulare di media fascia).
Se l’istitutore rappresenta una figura importante per l’educazione,
non per questo può usurpare il ruolo genitoriale: i genitori possono
all’occorrenza sostituire i maestri, mentre questi possono tutt’al
più farne le veci, sempre tuttavia sotto il vigile occhio paterno.
Nel caso in cui il patrimonio familiare non consenta di assumere un precettore,
Locke preferisce in ogni caso alle scuole pubbliche l’educazione dei
genitori, ai quali trasferisce le raccomandazioni profuse. Le stesse madri
– donne di buona società, che hanno appreso le lingue attraverso
la sola pratica – possono insegnare il latino ai figli meglio di tanti
maestri di campagna, versatissimi in manuali di logica e di retorica, ma
difficilmente in possesso dei requisiti necessari per assicurare una buona
educazione.
La responsabilità ultima di condurre i figli alla virtù resta dunque del padre e della madre: «il padre che educa il proprio figlio in casa, ha la possibilità di averlo accanto a sé, di dargli gli incoraggiamenti che stima opportuni, e di tenerlo lontano dal contatto dei servi e della gente di volgare condizione, più di quanto gli riuscirebbe possibile se lo avesse fuori di casa. Ma ciò che andrà fatto in questo caso, va lasciato decidere in massima ai genitori, secondo le convenienze e le circostanze». È significativo che, per avvalorare la tesi che l’educazione dei figli spetti in ultima istanza ai genitori, Locke inserisca in questo contesto l’unica annotazione di tutta l’opera, per chiamare a suoi testimoni tre illustri autori antichi (Svetonio, Plutarco e Diodoro Siculo). Una simile enfasi dovrebbe sembrare, a chi legga l’opera, persino più anomala dell’assenza quasi totale di riferimenti all’educazione femminile, o del sospetto verso la servitù, che vanno necessariamente contestualizzati. L’insistenza sull’intervento in prima persona di padre e madre nella crescita dei figli richiama una dimensione del percorso educativo assai più comprensiva di quella alla quale siamo abituati. Nel corso dei Pensieri, il padre è via via istitutore, psicologo, amico e guida del figlio in società: fonte del suo primo sapere, attento studioso dell’indole del bambino, autorevole, ma mai autoritario, degno di rispetto, non di cieca obbedienza. Impossibile immaginare una simile dedizione di tempo e di energie nella nostra epoca, per cui la delega dei vari aspetti educativi è diventata una regola. Gli spazi che Locke si preoccupa di affidare ai genitori sono oggi occupati, su incarico degli stessi genitori, da professionisti numerosi e diversi, le cui competenze sono in qualche modo il risultato della specializzazione progressiva delle discipline. Ma tra tutti questi manca la figura responsabile della «difficile e importante parte dell’educazione cui si deve mirare [...] il bene, solido e sostanziale, di cui gli educatori non soltanto debbono parlare o leggere, ma di cui debbono arricchire gil animi con la fatica e con l’arte dell’educazione»: manca, in altre parole, chi si assuma la responsabilità di insegnare ai nostri figli la virtù.
La responsabilità di chi insegna
Il primato
della virtù sulla cultura trova puntuale riscontro nei tratti distintivi
del precettore ideale, descrivendo il quale Locke ribadisce la priorità
da assegnare alle buone qualità rispetto agli studi seguiti. Direttiva,
questa, di rado tenuta presente tra i suoi contemporanei, che ritengono
sufficienti buona reputazione, serietà e istruzione: «ma quando
un tal precettore avrà scaricato nel suo allievo tutto il latino
e tutta la logica che egli ha portato con sé dall’Università,
questa imbottitura basterà forse a fare di lui un gentiluomo distinto?».
Locke ha ben presenti le obiezioni che una simile posizione è destinata
a suscitare: affermando più oltre che l’istruzione è
davvero «l’ultima parte dell’educazione», precisa
che leggere, scrivere e sapere sono certo necessari, ma non la cosa più
importante. Fatte le dovute differenze, la situazione nella quale «un
giovane gentiluomo debba essere messo nel branco e guidato con lo scudiscio,
come se dovesse passare sotto la frusta attraverso le varie classi, ad capiendum
ingenii cultum» non dovrebbe suonare estranea anche alle nostre orecchie,
di rado abituate a sentir mettere in discussione l’intoccabilità
di dettagliatissimi programmi scolastici.
Il compito che spetta a un istitutore è niente meno che quello di «educare e plasmare l’anima di un giovane gentiluomo»: una volta effettuata la scelta, come per una moglie, non si può cambiare, pena il grave danno sia per il genitore sia soprattutto per il bambino. Una similitudine utile per comprendere la natura dell’onere che, secondo Locke, chi insegna si assume: il precettore ha il dovere di mostrare il mondo al suo allievo, di fargli conoscere gli uomini, né peggiori né migliori di quanto siano, in modo che sia preparato quando, completata la sua educazione, entrerà a contatto con la realtà. Si tratta – e le parole di Locke sono volutamente enfatiche – di accompagnare l’allievo nel suo passaggio più difficile, quello da fanciullo a uomo: un errore qui sarebbe fatale, ed esporrebbe il ragazzo al rischio di rigettare tutto quanto appreso in famiglia per darsi alla dissolutezza e al vizio. Come in altri luoghi, anche in questo caso Locke si pronuncia contro un’educazione eccessivamente e inutilmente rigida, che agisce spesso da sostitutivo dell’attenzione e della dedizione che devono caratterizzare la responsabilità educativa: «so che si dice spesso che il rivelare a un giovanotto i vizi del suo tempo è insegnarglieli. Ciò, riconosco, è in gran parte vero: ma dipende dal modo che si segue nel farlo: perciò occorre un uomo prudente e di talento, che conosca il mondo e sappia giudicare il temperamento, le inclinazioni e il lato debole del suo allievo». Al contrario, la severità gratuita conduce il ragazzo a cercare, appena possibile, di svincolarsi dalle regole ricevute: e a questo punto non solo di dissipare i beni paterni si tratterebbe, ma – agli occhi di Locke – di un pericolo ancora maggiore, quello di fraintendere il concetto di libertà e di contravvenire alla ragione. Qualche nozione aggiuntiva di latino, o i rudimenti di qualche disciplina in più, specialmente se trasmessi con la coercizione, nulla valgono a paragone di questo rischio che mette a repentaglio la formazione dell’uomo.
Non di “riempire le teste degli alunni” si tratta, ma di far crescere delle persone: proprio per questo le caratteristiche personali del precettore – prudenza, calma, saggezza, buona educazione e conoscenza del mondo – sono così imprescindibili. Nel rapporto tra l’educatore e l’educando entrambi mettono in gioco tutta la loro umanità: non si può pensare di obliterare semplicemente una delle due, nascondendosi dietro il pretesto della specificità professionale, o peggio ancora dietro una fraintesa concezione di “vita privata”, che solleverebbe dall’obbligo di attenersi a quello che si pretende di insegnare. Locke ribadisce qui con la massima chiarezza la convinzione, difesa in tutta l’opera, che più di ogni cosa, nell’educazione, contino la pratica e gli esempi: «[…] l’esempio dell’istitutore deve guidare il bambino a fare ciò che si vuole sia fatto da lui. La sua condotta non deve assolutamente mai essere in contrasto coi suoi precetti, a meno che non voglia mettere l’alunno sulla cattiva strada. E non gioverà affatto che il precettore parli di freni da imporsi alle passioni, se egli darà libero sfogo alle proprie; come pure tenterà invano di reprimere qualche difetto o sconvenienza dell’allievo, se vi indulgerà per proprio conto». A chi insegna sono richieste non solo una buona cultura e un’abilità specifica, ma soprattutto una responsabilità personale: la capacità di assumere su di sé la crescita di un altro essere umano, e di riconoscere – in un coinvolgimento totale nel compito educativo – i frutti della relazione instaurata. “Responsabilità” è il concetto chiave che permette di definire questa stessa relazione come una relazione tra persone: nella quale l’allievo viene guidato da un maestro razionale e consapevole alla piena razionalità e alla consapevolezza delle proprie azioni.
La responsabilità di chi impara
Trattando
di educazione, Locke utilizza più volte il termine person of quality
oppure of condition, per citare le esperienze educative di “persone
di riguardo” – e, quindi, degne di fede. Altrove, “persona”
descrive gli individui destinati alla compagnia del bambino, e in particolare
il precettore. È a John W. Yolton che si deve un’analisi piuttosto
approfondita nel contesto pedagogico del significato di questo termine,
che nel resto dell’opera filosofica lockiana mantiene quasi sempre
un’accezione di tipo giuridico: “persona” nell’Essay
è riferito alle azioni, intendendo chi ne è responsabile di
fronte alle leggi. Il tratto distintivo della persona è quella che
Yolton chiama la «consapevolezza appropriante», ossia la capacità
di riconoscere le azioni compiute come proprie, base della responsabilità
morale. Per Locke, afferma Yolton, una persona «è questo essere
razionale, intelligente, preoccupato, ossequioso a delle regole, che agisce
nel mondo e che è conscio che certe azioni sono le sue». Sebbene
nei Pensieri sull’educazione Locke non utilizzi mai il termine in
questo senso riferendolo al bambino, è a questa meta che il processo
di crescita lo conduce, partendo dalla pratica assidua della virtù,
fino al riconoscimento che la virtù stessa è conforme alla
propria ragione.
Il nesso tra ragione e virtù si allarga nel percorso educativo ai concetti di natura e di libertà, intimamente legati in tutto il pensiero lockiano. Non esiste in Locke un’opposizione tra natura e ragione: persino nel passaggio dallo stato di natura a quello civile manca la costrizione hobbesiana che fa perno sul timore della violenza irrazionale. Così nell’opera pedagogica, la natura non è vista come elemento da reprimere o da negare, ma piuttosto da direzionare: tanto nei genitori, «cui la Natura saggiamente ordinò di amare i propri figli»; quanto nei figli, nei quali l’inclinazione naturale va studiata, assecondata e diretta verso la migliore riuscita. Allo stesso modo, la “naturale libertà” che i bambini esprimono nei loro svaghi va adoperata per rendere loro piacevoli anche le attività meno gradite, come lo studio; per il resto, non c’è ragione di sottrargliela se non nella misura in cui venga diretta al male. Le fattispecie di questo errato utilizzo sono soprattutto legate alla sregolatezza cui si abbandonano i ragazzi, troppo presto sottratti alla tutela del precettore, nei primi contatti con il mondo esterno. Un malinteso senso di libertà, consistente «nell’abbandonarsi al pieno godimento di tutto ciò che fino allora fu a loro vietato», prende allora il posto del significato più vero: così, il precettore appare al fanciullo come «il nemico della sua libertà», mentre gli ammonimenti di questo sono tutt’uno con i «consigli della sua stessa ragione». Il modo per mostrare ai ragazzi la libertà vera resta dunque quello di richiamarli all’ascolto della ragione, che in Locke concorda con la legge – prima tra tutte, quella di natura – e ne costituisce anzi il fondamento.
Il bambino è un essere ragionevole sin dal principio, e come tale va considerato anche dai suoi educatori: lo scopo è condurlo a prenderne gradualmente atto, contrastando le intemperanze della volontà, fino a che egli non sia in grado di identificare pienamente la vera libertà con la ragione. Locke non si illude circa le effettive tendenze e inclinazioni dei fanciulli: «più sono piccoli e meno si dovrebbero soddisfare i loro irragionevoli e disordinati desideri; meno giudizio hanno, e più dovrebbero sottomettersi all’assoluto potere e freno di coloro cui sono affidati». Tuttavia, ciò non significa che i bambini siano privi di ragione; al contrario, poiché «il bene e il male, il premio e la punizione sono i soli motori per una creatura ragionevole […] debbono essere usati anche coi bambini». Proprio per questo motivo, essi non possono identificarsi con effimere ricompense o con severe punizioni; Locke propone invece di fare leva su uno degli istinti razionali – non si tratta di un ossimoro – più forti nell’uomo, l’amore per la buona reputazione, prospettando al bambino la stima di tutti per i suoi comportamenti corretti, e rispettivamente la riprovazione generale verso le sue mancanze. Mentre scappellotti e contentini, divenuti abituali, perdono di ogni efficacia, la lode o la disistima conservano un influsso profondissimo sul carattere dei bambini. Pur non coincidendo con la virtù, la reputazione è «ciò che maggiormente le si avvicina»: «la buona reputazione, essendo la prova del plauso che gli uomini concedono per comune consenso alle azioni virtuose e rette, è la guida opportuna e il giusto incitamento per i bambini, fino a quando saranno capaci di giudicare da soli e di scoprire con il proprio raziocinio ciò che è giusto». Lo stesso metodo è da utilizzare nel caso delle due mancanze che Locke, generalmente tollerante verso le comuni leggerezze infantili, considera più gravi: l’ostinazione e la menzogna, frutti di una cattiva piega della volontà. Nel primo caso giunge ad ammettere l’uso delle correzioni fisiche: ma sempre mirando, più che a infliggere dolore, a suscitare la vergogna della «ripetuta e volontaria negligenza». Nel secondo caso gli educatori sono esortati a presentare il vizio al bambino con parole insolitamente dure, per suscitare in lui il più vivo disprezzo. Bugie e scuse, spesso utilizzate dai bambini per coprire i propri falli, sono proprio per questo colpe inammissibili agli occhi di Locke: è significativo che qui il filosofo inviti a perdonare immediatamente qualsiasi marachella, purché il bambino abbia il coraggio di dire la verità al riguardo. L’assunzione di responsabilità supera la qualità delle azioni, purché vengano riconosciute come proprie.
Il corto circuito tra natura, libertà, ragione e virtù si realizza così pienamente nella responsabilità, che contraddistingue la persona: un uomo morale, libero agente consapevole del proprio agire, in grado di risponderne di fronte alla legge – anzitutto quella naturale, conoscibile attraverso la stessa ragione umana.
Paola Liberace, giornalista, è direttore generale della Fondazione Ideazione.
(c)
Ideazione.com (2006)
Home
Page
Rivista | In
edicola | Arretrati
| Editoriali
| Feuilleton
| La biblioteca
di Babele | Ideazione
Daily
Emporion | Ultimo
numero | Arretrati
Fondazione | Home
Page | Osservatorio
sul Mezzogiorno | Osservatorio
sull'Energia | Convegni
| Libri
Network | Italiano
| Internazionale
Redazione | Chi
siamo | Contatti
| Abbonamenti|
L'archivio
di Ideazione.com 2001-2006