Nel 1938, Harold Nicolson, autore di un celebre volume sulla diplomazia (Storia della diplomazia, Corbaccio, 1995), elaborò una delle più efficaci definizioni delle finalità della politica estera italiana che siano mai state scritte. Scrisse Nicolson: «L’obiettivo della politica estera italiana è di ottenere con il negoziato più importanza di quel che è il peso reale del paese». Sessantotto anni dopo, questo giudizio è ancora lucido, attuale e utile a spiegare le scelte di fondo e quelle contingenti dei governi che si sono succeduti dall’Unità sino ai nostri giorni. Nonostante descrivesse lo stile e le tecniche della diplomazia italiana così come l’aveva conosciuta nel corso della sua carriera di funzionario del Foreign Office e di studioso delle relazioni internazionali, Nicolson seppe abbozzare un profilo della condotta italiana in campo internazionale capace di sintetizzare il passato dell’Italia liberale, coniugarlo con l’epoca fascista e proiettare il tutto ben oltre la prima fase democratica post-bellica.
Avere come obiettivo l’incremento dell’importanza del paese nel mondo, oltre le proprie reali capacità e per mezzo del negoziato, è, in fondo, comune a tutti gli Stati. Ma la storia insegna che ciò è ancor più vero per le piccole e medie potenze, stante la primaria rilevanza attribuibile alla forza – economica, politica, militare – che connota le grandi, attori dominanti del sistema internazionale. In tal senso, il giudizio di Nicolson racchiude una fotografia dell’Italia che sembra destinata a non sbiadire mai: si tratta di una potenza storicamente di media grandezza che, al contrario della Germania, «non fonda la diplomazia sulla forza, ma fonda la sua forza sulla diplomazia»; che, al contrario della Francia – la quale tende a concepire nemici permanenti e perciò a stringere amicizie permanenti – «considera i suoi alleati e i suoi nemici come intercambiabili»; che, infine, all’opposto della Gran Bretagna, «non persegue obiettivi durevoli ma vantaggi immediati» e che, pur avendo una concezione dell’equilibrio delle forze per certi aspetti similare a quella britannica, se ne discosta nel momento in cui interpreta tale principio non già come diretto ad evitare che un solo Stato domini l’Europa o il mondo, bensì nel senso che l’equilibrio possa essere alterato, in un modo o nell’altro, «con il suo solo peso».
L’Italia
liberale e la teoria del “peso determinante”
Nessun paese al mondo ha elaborato, in modo così costante, la percezione di
sé quale “peso determinante” tra due blocchi o più parti come ha fatto
l’Italia nel corso della sua storia. E nessun altro paese al mondo è
riuscito in ciò garantendo una straordinaria incoerenza di modi, di tempi e
di azioni come ha dimostrato di saper fare l’Italia. Anche quando ha stretto
alleanze, il governo italiano si è lasciato andare puntualmente ai suoi
“giri di valzer”; anche quando ha subito slanci entusiastici e inscenato
fughe in avanti, è stato pronto ad indossare le vesti di giocatore e allo
stesso tempo quelle di arbitro delle azioni in svolgimento. Nel corso
dell’ultima fase pre-unitaria, l’Italia sabauda è stata amica della Francia,
ma pronta a sfruttare il decisivo appoggio britannico, come avvenne durante
la spedizione dei Mille del 1860. A parti rovesciate, nel 1949, il paese,
pur essendo sotto parziale tutela britannica e avendo da soli tre anni
mutato il proprio assetto istituzionale in quello repubblicano, fu
provvidenzialmente aiutato dai francesi allorquando, in un’altra tappa
fondamentale della storia patria, si decise dei membri che avrebbero fatto
parte dell’Alleanza Atlantica costituitasi nell’aprile dello stesso anno. A
distanza di ben novanta anni, gli attori rimanevano gli stessi, le parti si
invertivano, ma il beneficiario – l’Italia – continuava a massimizzare gli
effetti dei veti incrociati tra le potenze maggiori.
L’Italia liberale non riuscì mai a liberarsi del mito risorgimentale in politica estera. Il desiderio di conseguire un rango almeno formalmente primario nella scala gerarchica delle potenze serviva a giustificare la classe dirigente e a eludere le carenze interne: il paese aveva interessi da difendere ma una posizione internazionale cronicamente insufficiente per poterli soddisfare. In un mondo dominato dalla logica del balance of power e della politica di potenza, l’Italia riadattò il senso del suo “peso determinante”: occorreva pazientare, coltivare i rapporti con tutte le potenze, calcolare da quale parte pendesse il piatto della bilancia e collocarvisi al momento opportuno. Era un paese presenzialista sulla scena internazionale per calcolato interesse e specifica volontà, nel solco dell’insegnamento cavouriano rappresentato dal precedente del 1855, la spedizione dei diciottomila soldati sabaudi in terra di Crimea. Il governo italiano era mosso dal desiderio di introdursi in ogni combinazione diplomatica, di mediare e quindi trarne vantaggi. I repentini cambi di fronte erano funzionali a questa logica. Alla bisogna, vi era un irredentismo da agitare contro l’Austria e uno da opporre alla Francia; si sosteneva l’anti-colonialismo e più tardi la politica espansionistica in Africa. Francesco Crispi sintetizzò in modo singolare la maggior parte di queste convergenze nazionali sino alla disfatta paradigmatica di Adua: l’ambizione della sua classe dirigente e la reale capacità di confrontarsi a distanza con le potenze rivali non potevano essere più distanti per l’Italia. Nel 1882 il governo di Roma, scopertosi isolato diplomaticamente ed impotente dinanzi alla penetrazione francese e britannica nel Mediterraneo, stipulò un’alleanza difensiva con Berlino e Vienna, la Triplice Alleanza. Ma non esitò a perseguire con una certa insistenza l’interesse nazionale nei Balcani, mettendo quindi in crisi il rapporto con l’Austria-Ungheria e aggirandone l’ostacolo con una serie di intese politiche audaci: il ravvicinamento, tra il 1905 e il 1907, con Londra e Parigi – la Duplice – e l’accordo balcanico di Racconigi del 1909 con la Russia zarista, definito contemporaneamente e tra le more di un parallelo accordo con l’amico-rivale austriaco.
Scoppiato il primo conflitto mondiale, l’Italia si sottrasse agli impegni con l’alleato austro-germanico dichiarandosi neutrale e argomentando la decisione adottata mediante un cavillo giuridico. Tuttavia, l’allora ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano non ebbe remore nel riferire all’ambasciatore austriaco, con l’affermazione che segue, la logica politica che sottendeva alla scelta italiana: «Decideremo pro o contro la nostra partecipazione alla guerra a tempo opportuno, secondo i nostri interessi». Il vecchio legame italo-britannico riemerse poi col Patto di Londra del 1915 che suggellò il cambio di campo italiano: da alleato degli Imperi centrali, il paese si ritrovò a fianco della Triplice Intesa anglo-franco-russa. L’Italia dimostrava ancora una volta un’instancabile capacità di percorrere vie senza precludersi ripensamenti, progetti e accordi alternativi e, se del caso, immediatamente sostituibili a quelli pregressi. Potevano cambiare i suoi governi, le sue personalità di spicco, gli umori e le ambizioni contingenti della nazione; ciò che non cambiava era il metodo del “peso determinante”, l’idea che le crisi internazionali fossero permanentemente strutturate in forma bilanciata e che il limitato capitale spendibile dal paese fosse il suo maggior investimento, stanti le relative condizioni di debolezza economica, politica e militare che esso soffriva nel confronto con le potenze più grandi.
La
continuità con il passato e il multilateralismo del Ventennio
Quando, nell’ottobre del 1922, Benito Mussolini giunse al potere, la
tradizionale griglia liberal-conservatrice e sostanzialmente pro-sistemica
della politica estera italiana non mutò immediatamente. La retorica
rivoluzionaria fascista puntò molto sulle faccende d’oltrefrontiera ma con
una finalità prioritariamente connessa al consolidamento interno del regime,
alla presa sull’opinione pubblica e ad un particolare archetipo del potere
capace di convogliare consenso verso il governo. Il fascismo segnò un
passaggio fondamentale nell’evoluzione dei rapporti tra la sfera della
politica estera e quella della politica interna in Italia: da due mondi
quasi distinti, anche se in misura minore rispetto al Diciannovesimo secolo,
si passò ad una conduzione della politica estera intrinsecamente legata alle
logiche interne del potere. È col fascismo che la politica internazionale
condotta dall’Italia comincia ad essere stabilmente concepita anche in
funzione di quella interna.
La nuova fase della diplomazia mussoliniana si ebbe dopo i Patti di Locarno del 1925. Dal 1926-27 in poi, il dinamismo italiano nell’area danubiano-balcanica cominciò ad arricchirsi in modo definitivo di intenti anti-sistemici e quindi anti-francesi. Allo stesso tempo, le ambizioni di Mussolini nell’area mediterranea iniziarono a scontrarsi con gli interessi britannici. Nel 1929, all’interno di un più generale rimpasto di governo, Mussolini lasciò la guida del ministero degli Esteri e nominò ministro Dino Grandi. A fronte delle incrinature nei rapporti con Parigi e Londra e dei toni revanscisti che connotavano la retorica italiana, i principi-guida dell’azione del governo di Roma rimanevano pur sempre quelli di un tempo. Mentre si ribaltava progressivamente l’interesse di fondo dell’azione diplomatica nazionale – dalla preservazione dello statu quo alla ricerca della revisione del sistema internazionale – la “equidistanza” dai protagonisti principali e il “peso determinante” – il costituirsi ago della bilancia dei rapporti di forza nello scacchiere europeo – rimanevano le principali parole-chiave per la comprensione della politica internazionale dell’Italia. Nei tre anni in cui Grandi rimase alla guida della diplomazia italiana, gli ingredienti storici della politica estera del paese si arricchirono di un nuovo lievito: la diplomazia multilaterale. Ai consessi plurilaterali, nascenti da accordi specifici o dalla prassi politica della diplomacy by conference avviata nel Diciannovesimo secolo è in questo periodo che il paese affiancò la costruttiva collaborazione all’interno delle conferenze internazionali, convocate per discutere delle grandi questioni dell’epoca come il disarmo e le riparazioni, e all’interno della Società delle Nazioni, l’organizzazione multilaterale istituita dal Covenant del 1919 e simbolo della “diplomazia aperta” fortemente voluta dal presidente americano Woodrow Wilson. Nella seconda metà degli anni Trenta si assistette ad una consistente ideologizzazione della condotta internazionale del paese. L’Italia diede vita all’Asse insieme alla Germania hitleriana e aiutò i franchisti nella guerra civile spagnola; si avventurò con ritardato spirito imperialistico in Etiopia nel 1936, aderì nel 1937 al Patto anticomintern stipulato da Giappone e Germania un anno prima e, sempre nel 1937, si ritirò dal Consiglio della Società delle Nazioni. Ma continuò, sebbene in un contesto internazionale – reso più difficile dal fallimento degli ideali wilsoniani, dallo spirito refrattario anglo-americano, dall’improvvisazione personalistica di Mussolini e dai calcoli opportunistici e aggressivi di Hitler – a mantenere canali aperti, anche dopo la rottura del fronte di Stresa, con Gran Bretagna e Francia.
Il governo di Roma scivolava inesorabilmente verso un appiattimento delle proprie posizioni su quelle tedesche, ma nel farlo tentava ancora, seppur inutilmente, di sfruttare l’antica carta ambigua dell’arbitro-giocatore nel corso della Conferenza di Monaco del 1938. La casacca aveva ormai un colore ben preciso, ma il tradizionale tatticismo nazionale fu oggetto di un ulteriore impiego allorquando l’Italia, nonostante gli impegni assunti con l’alleato tedesco, si dichiarò «non belligerante». Mussolini tentò di massimizzare la rendita della difficile posizione nazionale dinanzi a Hitler: ritardò l’ingresso in guerra, si tenne in disparte dopo anni di retorica spavalda, chiese aiuti economici e materie prime, tentò infruttuosamente di dar vita ad un blocco neutrale di paesi balcanici. Il sistema internazionale era parzialmente diverso; la sua condotta, seppur riadattata all’occorrenza, non si scostava troppo da quella dei governi che l’avevano preceduto alla guida del paese. L’Italia fascista, come quella liberale, mirava a divenire una grande potenza, ma non ne aveva i mezzi ed esorcizzava la frustrazione dell’impotenza con la fiducia silenziosa nella tattica, nel negoziato e nei vantaggi contingenti, a fronte della retorica roboante della sua massima guida politica.
Quando il 10 giugno 1940, con la Francia ormai travolta dall’offensiva tedesca, si decise a porre fine alle oscillazioni e dichiarò guerra, Mussolini ragionò ancora col metro tradizionale, quello del “peso determinante”. Ritenne che il momento fosse propizio, che l’interesse italiano si sostanziasse in una partecipazione simbolica e secondaria dal punto di vista militare, pur tuttavia riuscendo a garantire il soddisfacimento delle rivendicazioni nazionali e il ruolo primario tra gli alleati della potenza tedesca, lo Stato egemone del futuribile assetto politico europeo. Aveva preparato per anni il momento della revisione del sistema, parlando agli italiani e al mondo intero di «parità sostanziale» e di giustizia riparatrice della «vittoria mutilata» del 1919; ma intervenne in guerra con «una pugnalata alla spalle», come ebbe a definirla Franklin D. Roosevelt, che sublimò il suo cinismo e coniugò la tradizionale astuzia machiavellica del paese con la mediocre resa tacita allo stato di necessità in cui versava la nazione in quel momento. La diplomazia pre-fascista si era caratterizzata per l’intreccio secondario con le logiche di politica interna, per una considerazione prioritaria dell’interesse nazionale come criterio distintivo dell’azione in campo internazionale e per un tendenziale equilibrio tra approccio geopolitico e difesa dello statu quo sistemico interno ed esterno. La diplomazia mussoliniana finì invece per assecondare in chiave populista la politica estera alla logica del consenso interno, per esaltare in modo parossistico l’interesse nazionale, distorcendone il significato e strumentalizzandone gli effetti, e per capovolgere in chiave revisionista la vecchia sintesi tra geopolitica e statu quo sistemico.
Questa conobbe la diplomazia dei fori permanenti multilaterali e la interpretò, per un certo periodo e con scarso successo, come utile amplificatore delle proprie istanze. Ma si trovò ad operare in un sistema – quello di Versailles – strutturalmente squilibrato e inesorabilmente destinato a deflagrare al crescendo del recupero tedesco, dell’insistenza isolazionista statunitense e della mancanza di contrappesi in Europa, essendo la Francia troppo debole, la Gran Bretagna reticente e l’Unione Sovietica dapprima pariah e più tardi, dalla metà degli anni Trenta, gradualmente più partecipe ma sostanzialmente ancora periferica. Erano mutati alcuni tratti del sistema internazionale, era emerso prepotentemente il wilsonismo e i corollari che questo implicava erano stati parzialmente implementati, ma l’Italia continuava a confidare, aggiornandolo, nel metro di sempre, nella peculiarità nazionale del “peso determinante”, vissuto, per ragioni di limitata forza, come criterio di azione e giudizio autopercettivo, nel tentativo di conseguire in tal maniera ciò che le sole forze di cui disponeva non avrebbero altrimenti permesso. L’Italia del 1861, del 1882, quella del 1922 e del 1940 erano profondamente diverse all’interno, ma accomunate da due denominatori condivisi all’esterno: da un lato, l’incolmabile divario fra le ambizioni di grandezza e le insufficienti capacità reali; dall’altro, l’interesse verso il Mediterraneo, l’Africa e l’area danubiano-balcanica e l’incapacità di riuscire a scalzare l’influenza di Gran Bretagna e Francia nell’area afro-mediterranea e quella austro-ungarica prima e tedesca poi nei Balcani.
Dalla
cobelligeranza al dopoguerra: la diplomazia del negoziato
L’armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943 dissociò l’Italia dalle
potenze dell’Asse. I dirigenti della fase transitoria avevano collaborato
col regime fascista, ma si ritenevano prioritariamente servitori del re e
dell’interesse nazionale. L’umiliazione della disfatta, secondo i migliori
funzionari in tutta fretta richiamati in servizio a Brindisi e a Salerno,
poteva ancora trasformarsi in una mezza vittoria, tramite la tradizionale
accortezza diplomatica che tante volte aveva permesso al paese di ottenere
più di quanto gli fosse obiettivamente possibile. L’Italia non sarebbe più
stata nemica degli Alleati, bensì «cobelligerante». Vittorio Emanuele,
Badoglio e Renato Prunas, il diplomatico sardo in servizio a Lisbona che fu
chiamato a svolgere il ruolo di segretario generale del piccolo ministero
degli Esteri costituitosi a Brindisi, non disponevano più di una flotta, di
un esercito, di un’aviazione. Ma seppero destreggiarsi efficacemente,
continuando a ragionare con i vecchi schemi della Grosse Politik che avevano
connotato l’epoca passata. Seppero intuire che la condizione di totale
vulnerabilità militare in cui versava l’Italia avrebbe costituito, in virtù
della sua collocazione geografica, il maggiore capitale geopolitico del
paese.
In quella situazione, per potersi considerare ancora una volta “peso determinante”, mancava altresì la libertà d’azione. Ma Prunas individuò abilmente nel dialogo con l’Unione Sovietica – la potenza alleata esclusa dagli anglo-americani nella Commissione di controllo del paese – un sensibile strumento di pressione sulla Gran Bretagna e sugli Stati Uniti. Per strappare concessioni ampie in sede di negoziato per la pace, l’Italia doveva forzare la propria condotta, interagire con Mosca, puntare sulla intransigenza di Churchill e di Truman a mantenere fuori dall’area occidentale europea e dal cuore del bacino mediterraneo l’influenza di Stalin. Nel 1944 Prunas stipulò a Salerno un accordo col rappresentante sovietico in Italia, Vysinkij, mediante il quale i due paesi procedettero alla ripresa delle relazioni diplomatiche e si accordarono sul ritorno in patria di Togliatti, gettando le basi per l’ingresso dei comunisti in un nuovo governo Badoglio. La mossa non produsse gli effetti sperati e non modificò la posizione italiana sostanzialmente soggetta agli Alleati, in particolar modo alla Gran Bretagna. Ma dimostrò che l’Italia, anche se prostrata militarmente, continuava a sfruttare al massimo le potenzialità del negoziato. In fondo, l’accusa di doppiezza rivolta da Londra e Washington ai dirigenti italiani significò il riconoscimento da parte dei vincitori della dote politica principale del paese – l’importanza della sua collocazione geografica – e della tecnica preferita dai suoi dirigenti – la convinzione che tutto, in ultima analisi, fosse massimizzabile dietro negoziato.
Da questo coraggioso esercizio diplomatico tuttavia si ricavò poco. Gli Alleati non smisero di concepire il paese sconfitto e occupato come un ex nemico. Non bastarono le immediate dichiarazioni di guerra che il governo italiano inoltrò alla Germania e al Giappone. Non bastò il viaggio che Alcide De Gasperi fece negli Stati Uniti nel 1947. Il 10 febbraio dello stesso anno, a Parigi, i vincitori concessero un unico vantaggio al fragile Stato italiano: essere il primo, tra gli sconfitti, a stipulare un trattato di pace. L’Italia recuperava così la dignità di Stato sovrano ma non poté eludere immediatamente gli oneri che il suo status di potenza sconfitta implicava. Al momento della ratifica in seno all’Assemblea Costituente, alcuni tra i migliori esponenti della vecchia guardia liberale, come Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando, faticarono a comprendere il mutamento di epoca, anche a livello diplomatico; non ammisero l’uniformità di giudizio che implicitamente sottendeva il trattato: l’Italia liberale e l’Italia fascista venivano punite, indistintamente, perché per i vincitori esisteva una sola Italia, resasi responsabile sul piano internazionale; non tollerarono l’idea che gli antichi successi risorgimentali, le colonie, il prestigio di potenza fossero volgarmente mischiati alla tragica esperienza fascista – intesa come parentesi storica, corpo estraneo all’Italia del Risorgimento, «invasione degli Hyksos». Ma accanto a tali motivazioni, vi era anche la disillusione che derivava dal constatare la debolezza del paese in campo internazionale, talmente profonda da non riuscire più a garantire, attraverso gli schemi diplomatici tradizionali, la difesa dello status di potenza europea e mediterranea conseguita nel passato.
Mentre altri liberali, ad esempio Luigi Einaudi, preferirono votare per l’approvazione della ratifica, ritenendo pragmaticamente che fosse giunta l’ora di voltare pagina e limitare le fratture interne al paese, è in questa fase che la sfera della politica estera italiana si arricchì di plurime versioni ideologiche e strumentali, dapprima rivolte alla lettura della storia patria, che influenzeranno in modo permanente la successiva conduzione degli affari esteri del governo di Roma. Per i comunisti e gli altri gruppi politici di sinistra, la sconfitta in guerra e gli oneri della pace costituivano l’approdo ultimo di un fascismo presente in modo più o meno costante lungo gli ottanta anni di storia unitaria: in nuce con la classe dirigente pre-fascista, manifestamente col regime mussoliniano. Per i cattolici, la disfatta aveva diversi significati: essa testimoniava l’indole pacifica del popolo italiano; la volontà di Dio di punire il peccato originale commesso un tempo dal paese contro il suo pastore; il contrappasso della cupidigia di potenza che aveva connotato, in modo diverso ma con metodi similari, come abbiamo visto, i governi nazionali. Per i partiti risorgimentali, la sconfitta significò l’ultima offesa del fascismo alla patria, tanto più grave perché illegittima.
La guerra
fredda e la scelta di campo
Mentre i primi governi repubblicani tentavano inutilmente di reiterare i
vecchi metodi diplomatici, cercando di preservare i confini nazionali e, per
quanto possibile, lo status internazionale del paese, l’Italia perdeva per
strada una idea condivisa di nazione, del suo passato e quindi,
inevitabilmente, del suo presente. Nel momento delle scelte per il nuovo
posizionamento in campo internazionale, ai lucidi calcoli di De Gasperi si
andava contrapponendo una cultura sin lì estranea al dibattito politico
nazionale, che in parallelo agli spazi progressivamente occupati nella sfera
della politica interna, finirà per caratterizzare significativamente il
profilo internazionale del paese per tutta la durata della guerra fredda.
La politica estera italiana finì inesorabilmente per intrecciarsi in modo strutturale alla politica interna. Il sistema internazionale, e in particolar modo il continente europeo, si divideva in due blocchi, geopoliticamente rivali ed ideologicamente incompatibili. Era arrivata, intempestiva, l’ora della scelta di campo per la classe dirigente centrista. De Gasperi e Sforza seppero individuare, nella loro conduzione di politica estera, l’interesse del paese, ma non poterono evitare le pressioni interne e la nuova variante dell’intendimento nazionale agli accordi con le altre potenze. L’Italia aderì al Piano Marshall del 1947, all’Organizzazione europea per la cooperazione economica (oece) del 1948, al Trattato dell’Atlantico del Nord l’anno successivo, al Trattato di Parigi istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (ceca) del 1951, a quello istitutivo della Unione europea occidentale (ueo) del 1955 e all’onu nello stesso anno. In pochi anni, il paese delineò il suo posizionamento internazionale, le sue alleanze, il suo raggio d’azione e, dopo le elezioni dell’aprile del 1948, anche il suo sistema politico-economico interno. Ma l’intreccio era ormai ambivalente: le scelte di politica estera influenzavano le dinamiche anche ideologiche all’interno del paese; specularmente, la sinistra imponeva un basso profilo in campo internazionale e consigliava agli alleati maggiori di trattare i sistemici sbandamenti dei governi di Roma con una certa indulgenza. L’Italia interpretava su nuove basi la storica ambiguità dei suoi metodi diplomatici, amplificando la smania di presenziare ai grandi consessi internazionali e al “concerto” occidentale in divenire, pur sperando in cuor proprio di eludere le dure regole della partecipazione. Mirava nuovamente allo status formale e sottovalutava gli oneri sostanziali; si riteneva degna politicamente e glissava sul fardello economico e sulle responsabilità militari connesse a tale rango.
Il paese accettò quindi entusiasticamente gli aiuti economici del Piano Marshall, ma l’anticapitalismo di larga parte della società italiana e gli interessi corporativi di ampi settori dell’industria nazionale spinsero affinché gli standard economici ai quali gli americani legavano la concessione degli aiuti fossero ridiscussi o interpretati in maniera meno rigida. Il governo aderì al Patto Atlantico innanzitutto per difendersi dal suo nemico interno – il partito comunista – e poi da quello esterno – l’Unione Sovietica. Vi restò perché la nato garantiva sicurezza e consentiva di destinare risorse risibili alla difesa; ma l’adesione morale rimase sempre tiepida, ricca di riserve mentali e poco ortodosse interpretazioni del vincolo d’alleanza. Analogamente avvenne allorquando fu deciso dell’adesione al progetto europeista delineatosi a seguito della dichiarazione di Schuman del 1950. Se per la Francia l’Europa aveva un prioritario significato strategico e per la Gran Bretagna una valenza almeno inizialmente soltanto politica, per l’Italia l’Europa fu da subito un’opportunità economica, un indefinito ideale e, soprattutto, fu strumento assai utile per la tattica politica interna di De Gasperi e Sforza a cavallo tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta.
Nell’infuocato dibattito relativo all’adesione italiana alla Nato, il governo centrista aveva ben più di un avversario: la “quinta colonna” comunista, i cattolici di sinistra, i socialisti, numerosi esponenti neutralisti, i nazionalisti. Ciascuno di questi gruppi muoveva obiezioni, dubbi e controproposte all’alleanza militare stipulata da De Gasperi. Questi sapeva che i suoi avversari erano uniti dall’avversione all’opzione pro-americana, ma sapeva anche che le sue scelte, agli occhi e nella retorica dei suoi antagonisti interni, acquistavano significati differenti, spesso opposti. Se per le sinistre le opzioni degasperiane erano viziate dal militarismo e dal capitalismo, per i nazionalisti e per alcuni settori liberali e risorgimentali – tuttavia sempre più minoritari – esse costituivano una rinuncia preventiva al tradizionale gioco d’astuzia del “peso determinante”, un inspiegabile rifiuto ad offrirsi soltanto all’ultimo istante e al miglior prezzo o, in alternativa, a definirsi neutrali. Ma il metodo, riproposto all’indomani della seconda guerra mondiale nella sua variante storica, era ormai anacronistico. De Gasperi seppe abilmente individuare nell’idea di Europa la via d’uscita dal tiro incrociato del confronto politico interno. Sin dai primi passi, pertanto, l’europeismo italiano si connotò per una vaghezza di intenti strumentale a mantenere legato il paese al treno delle maggiori potenze continentali, ma anche decisiva per ottenere il consenso necessario della maggior parte dell’opinione pubblica sulle scelte militari e pro-americane.
Quel che
resta del ’900: i tre pilastri della politica estera italiana
Insieme a De Gasperi e Sforza, gli esponenti più rappresentativi della prima
fase della politica estera italiana del secondo dopoguerra, altri importanti
personaggi politici seppero interpretare similarmente la portata delle
decisioni assunte, facendosene a vario titolo promotori: Pella, Scelba,
Gaetano Martino. A fianco del pilastro europeista, consolidatosi nel 1957
con la firma a Roma dei trattati istitutivi della Comunità Economica Europea
(cee) e dell’Euratom, l’Italia arricchì la propria politica internazionale
di due ulteriori presupposti: un rapporto saldo con gli Stati Uniti e una
relazione importante con i paesi arabi del Mediterraneo e del Medio Oriente.
Dal Patto Atlantico dell’aprile del 1949 all’elezione di Silvio Berlusconi
del 2001, l’Italia ha prioritariamente concepito la sua politica nel mondo
sulla base di questi tre capisaldi.
Non essendo più chiamato a sintetizzare direttamente l’interesse nazionale con i temi della propria sicurezza, in virtù dell’ombrello atlantico e della cristallizzazione degli equilibri nel continente europeo e nell’area mediterranea, il paese si vide chiamato a riformulare in tempi brevi i vecchi criteri diplomatici, aggiornandoli alla nuova èra della guerra fredda ma non dimenticando di rimodularli in chiave «italiana», in modo che ciò, in coerenza con l’autonomia d’azione che il paese aveva tradizionalmente difeso durante tutta la sua storia unitaria, permettesse di soddisfare almeno in parte i tic ideologici e le esigenze del consenso delle plurime culture politiche esistenti al suo interno. Accanto all’atlantismo e all’europeismo si delineò, col tempo, una cultura – quella terzomondista – capace di influenzare in modi e casi particolari la conduzione nazionale degli affari esteri. Non fu facile conciliare la simpatia per la causa palestinese dei governi del centro-sinistra con il riconoscimento concesso a Israele nel febbraio del 1949. Non fu facile atteggiarsi a ponte tra Est e Ovest dell’Europa e tra Nord e Sud del Mediterraneo senza provocare i mugugni dell’alleato americano o viceversa la delusione degli interlocutori dell’altro campo. Eppure l’Italia, in un contesto internazionale solo apparentemente statico, dimostrò di sapersi districare a lungo tra continui esercizi diplomatici, acrobazie retoriche e aperture politiche.
Praticò per un lungo periodo una politica tacita di equilibrio interno ed una progressivamente più esplicita di equilibrio esterno. Al suo interno, il paese dovette mediare in modo costante tra le pressioni del più potente partito comunista del mondo occidentale e l’influenza della Santa Sede. Al suo esterno, si ingegnò in una politica a più livelli: la difesa militare e gli interessi economico-finanziari lo spingevano a dare prova di lealtà verso gli Stati Uniti; un consenso ideale, diffuso e trasversale lo poneva tra i paesi più entusiasticamente europeisti, sempre in prima fila nel processo di integrazione europea; lo storico ruolo di splendid second nel Mediterraneo lo muoveva a coltivare i rapporti con gli Stati nordafricani e a simpatizzare per la causa araba con strumenti diplomatici, economici e culturali e connotazioni spesso anti-americane e pacifiste, in ossequio alle crescenti pulsioni della sinistra nazionale. L’uomo che in quegli anni rappresentò al meglio il profilo diplomatico del Paese fu certamente Giulio Andreotti. Nel suo solco, un’assortita galleria di statisti, leader politici ed imprenditori pubblici – dal nazional-pacifista Gronchi al socialista filo-americano e al tempo stesso filo-palestinese Craxi; dal filo-arabo per finalità petrolifere Mattei al propugnatore del “ponte culturale” La Pira – segnarono, con toni e risultati tuttavia differenti, i diversi gradi di autonomia dal blocco atlantico che l’Italia poté via via permettersi, di riflesso ai mutamenti del tenore dei rapporti bilaterali tra Washington e Mosca, che finivano giocoforza per caratterizzare il sistema internazionale e l’equilibrio regionale in cui si inseriva l’azione italiana.
Il paese si riscopriva, compiacendosene, privo di grandi ambizioni, restio ad investire nella difesa, indebolito da un sistema partitocratico strutturalmente avverso alle decisioni energiche, sinceramente persuaso dagli ideali wilsoniani, affascinato dalla retorica marxista e profondamente influenzato dal magistero della Chiesa cattolica. Come spiegava Enrico Serra vent’anni fa, l’epoca della guerra fredda ha permesso all’Italia di sviluppare massimamente «l’arte di muoversi all’interno di un’alleanza, ma la protezione americana ha distolto dallo studio dei grandi problemi di politica estera, delle opzioni di fondo, della produzione dei rapporti di forza, in una parola, dei molti fattori che condizionano le scelte di una società industriale».
La fine della guerra fredda non ha velocizzato il riadattamento dei metodi diplomatici del paese al nuovo sistema internazionale: l’Italia del Ventunesimo secolo reitera i tic e vive delle ambizioni accarezzate già da quella del Diciannovesimo e da quella del Ventesimo. Ambisce legittimamente a pesare di più nel mondo, bramando la tessera di socio del club delle grandi potenze mondiali; ma è drammaticamente priva di risorse, cultura strategica e generale condivisione valoriale all’interno della sua classe dirigente per poter realmente conseguire ciò a cui aspira. Il paese è convinto che presenziare all’interno degli organi multilaterali sia, di per sé, segno di grandezza, illudendosi che alla magniloquenza dello status formale corrisponda automaticamente la facilità di soddisfare l’interesse nazionale. Ma il dilemma italiano nel contesto multilaterale si sostanzia nell’asimmetria intercorrente tra le esigenze della sua classe politica e quelle della sua diplomazia: quand’anche la politica estera soddisfi le prime, non necessariamente soddisferà le seconde.
Con Berlusconi l’Italia ha tentato, con alterne fortune, di sottrarsi al “moltiplicatore” diplomatico dell’Europa a guida franco-tedesca, per improvvisarne uno euro-atlantico contingente, fondato sulla comunanza ideologica e sulla flessibilità istituzionale. Con Prodi il Paese ritorna allo schema forgiato dalla guerra fredda, vale a dire il tradizionale trittico Europa, Nato e filo-arabismo. Su ciò pesa, al di là delle sbandierate fedi ideologiche dell’una e dell’altra parte e alle imprescindibili ragioni di consenso interno, il diverso approccio delle due coalizioni al nuovo contesto mondiale post 11 settembre. Ma, al netto del cambio di retorica, il paese non modifica le sue priorità e i suoi obiettivi: contare di più, pur non disponendo di risorse motu proprio. Il rapporto con Washington rimane quindi fondamentale ai fini di un’amplificazione del raggio d’azione del paese. Alla tattica «iperleale» del precedente quinquennio si va sostituendo lo spirito critico soft dell’attuale esecutivo. Si trasforma il registro formale per esigenze di politica interna, ma nella sostanza l’Italia rimane un fedele alleato del suo principale amico, per l’ovvio motivo che nessun altro Stato al mondo può garantirle un così vantaggioso rapporto tra libertà d’azione e protezione militare. Ad evolvere è solo il modo in cui il paese intende massimizzare la prima e preservare la seconda.
Nonostante i mutamenti politici interni e quelli sistemici esterni, il destino del paese sembra irredimibile. Sergio Romano ha descritto su questa rivista, in modo tanto stringato quanto efficace, la condizione storica dell’Italia: «il paese è troppo piccolo per essere veramente “potenza” ed è troppo grande per lasciare ad altri la trattazione degli affari che lo riguardano». Il destino dell’Italia, in altre parole, segue un moto pendolare. Il suo ruolo nel mondo oscilla tra due estremi – grande e media potenza – senza però potersi stabilizzare. Con lo spostamento del baricentro del sistema internazionale verso Oriente e la cronica impotenza a modernizzare i meccanismi interni di produzione e distribuzione delle risorse da destinare alla propria azione nel mondo, nel corso degli ultimi quindici anni l’Italia ha perso un’occasione storica per potenziare il proprio ruolo regionale e mondiale. Diplomaticamente e per ragioni come sempre interne, ha giocato in difesa nella fase storica in cui avrebbe dovuto attaccare; culturalmente, si è aggrappata a griglie di lettura delle relazioni internazionali ormai superate, senza rigenerare proficuamente il suo storico dinamismo pluridirezionale.
Destinata al ruolo di prima tra le medie e di ultima tra le grandi, una certa dose di ambiguità politica, l’incrollabile fiducia nel negoziato, il sostegno retorico ma interessato ai fori multilaterali e il presenzialismo militare di peace enforcement in giro per il mondo continueranno a segnare le caratteristiche di fondo della condotta internazionale del paese anche in futuro. Ma è lecito dubitare che l’efficacia del suo linguaggio diplomatico possa di nuovo risultare sufficiente a garantire la difesa dello status e del prestigio nazionali.
Daniele Sfregola, specializzato in Relazioni Internazionali presso la Sioi di Roma, si occupa di politica estera italiana e storia diplomatica. Collabora con il gruppo di ricerca Epistemes.org.
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