Il Supertuesday non assegna la corona
di Alessandro Marrone
[06 feb 08]
Dopo le primarie del
“super martedì” nessun candidato, né tra i democratici né tra i
repubblicani, ha ottenuto una vittoria da porre fine a quella guerra
fratricida, pacifica e politica, che sono in fondo le elezioni primarie
americane nel partito repubblicano e in quello democratico.
Barack Obama e Hillary Clinton continuano la loro
lotta per la nomination democratica, senza che lo scontro campale del 5
febbraio abbia visto una vittoria decisiva di uno dei due leader. Obama ha
vinto in 13 Stati (Alabama, Alaska, Colorado, Connecticut, Delaware,
Georgia, Idaho, Illinois, Kansas, Utah, Nord Dakota, Minnesota, Missouri) e
Clinton in 8 (Arizona, Arkansas, California, Massachusetts, New York, New
Jersey, Oklahoma, Tennessee). Tuttavia la senatrice di New York ha vinto nei
due Stati più popolosi, California e New York, e può contare ora su più
delegati del rivale dell’Illinois, 845 contro 765, nella convention
democratica.
Se si guarda la carta geografica degli Stati Uniti dopo
quest’ultimo round di primarie, si vede che Obama ha vinto
nel nord, ad eccezione del New Hampshire, e la Clinton nel
sud, ad eccezione del South Carolina. Tale risultato dipende
principalmente dal tipo di truppe che su cui i due
condottieri hanno potuto contare, cioè sulla ripartizione
del voto etnico. Secondo le analisi post elettorali la
Clinton martedì ha infatti potuto contare sul 60 per cento
dei voti dei latinos, che si sono rivelati fondamentali
nella cintura di Stati al confine con il Messico, ai quali
nella battaglia decisiva della California si sono aggiunti
quelli della minoranza asiatica molto consistente nella
regione con lo sguardo rivolto sul Pacifico. Il candidato
afroamericano ha invece potuto contare sul sostegno compatto
dell’etnia di colore, forte sia nel sud-est che nei
distretti industriali del nord. Stante una divisione per il
momento abbastanza equilibrata del voto bianco, che vede i
giovani votare a favore di Obama e le donne schierate con
Clinton, le minoranze “colored” sono state uno dei fattori
decisivi per il voto, ma non il solo.
Nella battaglia campale democratica è anche stata testata la
(scarsa) efficacia di quella sorta di “supporto aereo”
rappresentata dagli endorsement ai candidati da parte di
personalità di spicco del partito democratico e del mondo
dello spettacolo. A dispetto dello storico radicamento del
clan Clinton nei quadri e nei finanziatori democratici, con
l’approssimarsi del “super martedì” Obama ha potuto contare
sull’appoggio di figure di rilievo nel partito come i
Kennedy e il candidato alle ultime presidenziali Kerry,
nonché sugli appelli di star come Oprah Winfrey e Robert De
Niro. L’offensiva di Obama ha conquistato il feudo
clintoniano del Connecticut, ma non ha sfondato la trincea
decisiva per sconfiggere Hillary: il Massachusetts, che ha
visto il proprio governatore ed entrambi i suoi senatori
(Kerry e Kennedy) appoggiare Obama ed i famosi college della
East Cost fare campagna per il laureato di Harvard, e ha
scelto alla fine Clinton. Rimane comunque il dato di un
forte trend a favore di Obama, che nei sondaggi nazionali di
qualche settimana fa scontava 10 punti di distacco dalla
rivale ed oggi è nelle condizioni di giocarsi Stato per
Stato la nomination democratica (nel momento in cui si
scrive, il Nuovo Messico non è ancora stato assegnato perché
vede i due candidati ancora perfettamente appaiati con il 92
per cento di schede scrutinate).
La situazione è diversa eppure per certi versi simile nel
campo repubblicano. John McCain, alla vigilia del “super
martedì” indicato da molti come il front runner
repubblicano, ha vinto in 9 Stati: California, Connecticut,
Delaware, Illinois, New Jersey, New York, Oklahoma, Arizona,
Missouri. Il suo principale antagonista, il miliardario
mormone Mitt Romney ne ha conquistati 6: Colorado,
Massachusetts, Minnesota, Montana, North Dakota, Utah.
Infine, il pastore battista ed ex-governatore dell'Arkansas
Mike Huckabee ha sorpreso ottenendo ben 5 Stati: Alabama,
Arkansas, Georgia, Tennessee, West Virginia. Diversamente
dai democratici la partita non è dunque a due ma ancora
formalmente a tre, ma come nel partito dell’asinello lo
scontro campale di martedì non è stato risolutivo. Come
accaduto finora nelle primarie repubblicane, ognuno dei
contendenti ha infatti vinto alcune delle battaglie e
ottenuto un certo bottino di candidati, il che rende fluida
ed incerta la composizione complessiva della convention del
partito dell’elefantino.
Tuttavia, guardando anche in questo caso la geografia del
voto, si possono trarre alcune indicazioni sui processi in
atto nel campo repubblicano. McCain ha vinto sugli stati
costieri più popolosi, come California e New York, grazie
anche al forte sostegno ricevuto dal governatore dello Stato
di Los Angeles, Arnold Swarzeneggher, e dall’ex sindaco
della Grande Mela Giuliani, che probabilmente ha avuto un
peso anche nella vittoria netta negli altri stati della East
Coast come New Jersey, Connecticut, Delaware. Tra i
repubblicani l’endorsement sembra dunque aver funzionato,
anche perché McCain aveva l’assoluto bisogno di liberarsi
della sua immagine di candidato estraneo al partito
repubblicano. L’avanzata di McCain dalle coste liberal verso
il cuore dell’America e dei repubblicani ortodossi ha
superato vittoriosamente le battaglie in Arizona, Oklahoma,
Missouri e Illinois. Ma si è arrestata altrove, fermata
nelle grandi pianure del sud est da Huckabee e nel West da
Romney, che ha vinto anche in Massachusetts dove è stato
governatore per un decennio. Nel complesso McCain ha
ottenuto circa il 40 per cento del voto repubblicano,
abbastanza per confermarsi come front runner ma non per
costringere alla ritirata i suoi avversari. Il Grand Old
Party continua ad essere diviso tra il centro pragmatico e
la destra religiosa (con la nicchia libertaria che continua
a dare al texano Ron Paul mediamente il 5 per cento dei
voti), e l’avanzata di McCain deve molto alla divisione
delle schiere dei conservatori più ortodossi tra il battista
Huckabee ed il mormone Romney.
Alla luce dei risultati del “super martedì”, si può
concludere che tra i repubblicani McCain non ha raggiunto
sul campo la vittoria che alcuni si aspettavano, e che sarà
decisivo per il proseguimento della campagna l’arruolamento
tra sua le fila di sostenitori strappati al campo avverso.
Romney e Huckabee dal canto loro sembrano condannati dalla
propria storia personale e dallo scontro fratricida fin qui
sostenuto a non potersi alleare, indebolendo così il fronte
della destra rispetto ad un McCain che non ha più rivali al
centro. Tra i democratici invece, sfumata per entrambi i
leader la possibilità di una vittoria sul campo, la lotta
interna al partito dell’asinello assumerà probabilmente i
tratti di una guerra di trincea dai tempi lunghi e dagli
esiti incerti, che sarà influenzata anche dalla successione
cronologica dei diversi teatri di battaglia. La guerra
continua.
(c)
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