Il ring delle primarie non ha ancora un vincitore
di Alessandro Marrone
[11 feb 08]
I quattro pugili
rimasti in piedi nei ring democratico e repubblicano anche nello scorso
weekend hanno cercato di mettersi ko a vicenda, e sebbene nessuno vi sia
ancora riuscito sono stati segnati dei punti importanti. Tra i democratici
Obama ha vinto in Louisiana e Maine dando 20 punti percentuali di distacco
alla rivale rivale, ed in Nebraska e Washington ha addirittura doppiato i
voti della Clinton ottenendo il 68 per cento dei consensi. Il bottino di
delegati di Obama è consistente anche se non ricchissimo, e gli consente di
pareggiare quasi il conto nella convention democratica annullando il
vantaggio di cui godeva Hillary: tenendo presente che il numero esatto dei
rispettivi delegati è ancora incerto poiché vi sono diverse variabili da
considerare, compresi degli eletti senza vincolo di mandato, secondo una
stima riportata dal New York Times il senatore dell’Illinois conta su 1.108
voti e la senatrice di New York su 1.136. La convention democratica è
composta da circa 4.000 delegati, e quindi la maggioranza assoluta
necessaria per la nomination è ancora un traguardo lontano per entrambi.
Tuttavia, anche se il match rimane aperto e mancano ancora
diverse riprese alla fine, Obama si è aggiudicato un round
importante. In primo luogo perché la disposizione geografica
del voto è incoraggiante per il senatore di colore. Nebraska
e Kansas sono nel cuore dell’America bianca e religiosa, lo
stato di Washington nell’estremo nordovest ed il Maine nella
punta settentrionale della East Coast liberal e
anglosassone: oltre alla vittoria scontata nella Lousiana a
forte presenza afro-americana, Obama ha prevalso dunque ai
quattro angoli del paese, segno che il suo messaggio
politico sta superando i confini del voto etnico per
raggiungere tutte le fasce di elettorato democratico. In
secondo luogo perché, a livello di immagine, il 4-0 sulla
Clinton (5-0 volendo contare anche le Isole Vergini e i loro
9 delegati) rafforza la sua aura di vincente, di front
runner lanciato verso la nomination, galvanizzando i suoi
sostenitori e preoccupando quelli della rivale: potrebbe
innescarsi adesso il tradizionale effetto-valanga che è
mancato finora nelle primarie americane. Hillary è
consapevole di trovarsi in un momento difficile e decisivo,
con il rivale che nel conteggio degli Stati è avanti per 19
a 13. Negli ultimi giorni ha investito 5 milioni di dollari
di tasca sua nello sforzo elettorale, e all’indomani dei
risultati negativi ha sostituito la responsabile della sua
campagna elettorale con un’altra fidata consigliere. Quest’ultimo
gesto è stato interpretato da molti come un segno di
debolezza, da parte di una candidata che dopo la discesa in
campo del marito e lo strenuo sforzo finanziario sembra
stretta in un angolo in vista dei prossimi match. Mentre il
rivale, tonico e sorridente, alza i guantoni al cielo al
grido, ormai copiato anche in Italia, “Yes, we can!”.
Tutt’altra storia sul ring repubblicano. Il 7 febbraio Mitt
Romney, finora il principale antagonista di McCain, si era
ritirato dalla corsa affermando che, sebbene siano in
disaccordo su molti temi, sia lui che il senatore
dell’Arizona concordano su cosa va fatto per vincere in Iraq
e nella guerra al terrorismo. Un’uscita di scena di classe,
insomma, in nome dell’unità del partito e dell’America, con
una simbolica stretta di mano al front runner repubblicano
che alcuni hanno interpretato come un’offerta di appoggio in
cambio di un incarico di prestigio da parte del futuro
candidato alla Casa Bianca. L’uscita di scena del
miliardario mormone, se da un lato ha facilitato la corsa di
McCain privandolo del suo principale inseguitore, dall’altro
ha fatto sì che una parte dei suoi voti confluisse
sull’altro candidato della destra religiosa del partito, il
pastore battista Huckabee. Tale effetto potrebbe aver
influito sull’ultimo round di primarie, che ha visto McCain
vincere di misura nello stato di Washington, perdere di un
solo punto in Louisiana, e crollare in Kansas dove i
numerosi correligionari di Huckabee hanno contribuito alla
sua schiacciante vittoria. Intanto, fuori dall’incontro vero
e proprio, il libertario texano Ron Paul, insistendo nella
sua candidatura di bandiera, aggiunge incertezza al match
sottraendo circa il 10 per cento al conto dei due principali
candidati. Sebbene McCain rimanga il favorito anche dopo i
colpi presi nell’ultimo round, è evidente che Huckabee non
mollerà facilmente e che il pubblico repubblicano è ancora
diviso nel sostenere i due contendenti.
Un esempio significativo in tal senso è fornito dalla
performance dei candidati repubblicani all’incontro della
Conservative Political Action Conference, svoltosi nello
stato di Washington nei giorni antecedenti le ultime
primarie. McCain si è detto di nuovo orgoglioso di essere
repubblicano, e soprattutto di “aver iniziato la sua
carriera pubblica come un fante della rivoluzione reaganiana”.
Nello sforzo di rassicurare gli elettori repubblicani più
ortodossi, diffidenti verso le sue posizioni troppo liberal,
ha messo in primo piano i punti sui quali c’è identità di
vedute: il sostegno alla strategia del “surge” in Iraq, da
lui proposta prima dello stesso Bush, l’impegno a non
rendere più restrittiva la legislazione sulle armi da fuoco,
la sua posizione antiabortista. McCain ha però continuato a
parlar chiaro (non a caso Straight Talk Express è il
nome del convoglio con cui viaggia in questa campagna
elettorale) anche sui temi che lo dividono da una parte
della base repubblicana, come l’immigrazione, e si è preso
sonori fischi dal pubblico presente in sala. La destra
repubblicana rimprovera infatti a McCain di aver presentato
nel 2005, insieme al senatore democratico Ted Kennedy, un
disegno di legge per permettere agli immigrati clandestini
di mettersi in regola pagando una somma forfetaria di
contributi previdenziali. McCain ha inoltre sostenuto il
finanziamento federale alla ricerca sulle cellule staminali,
atteggiamento considerato quasi come “abortista” dalla
componente evangelica dei repubblicani.
Posizioni del genere hanno valso a McCain l’attacco feroce
nelle ultime settimane dei programmi radio di popolari voci
repubblicane come Mark Levin. Le stesse posizioni però,
insieme al proposito di chiudere la prigione di Guantanamo,
alla richiesta di limiti al finanziamento privato dei
candidati e alla condanna delle discusse pratiche di
interrogatorio usate dalla Cia, sono alla base del consenso
che McCain riscuote tra gli indipendenti, tra le minoranze
etniche e anche tra una parte degli elettori democratici.
Tale consenso fa di lui il più pericoloso avversario tanto
per Obama che per la Clinton, ma finora ciò non gli è
bastato per mandare a tappeto Huckabee: l’incontro prosegue,
e nel ring repubblicano più che un ko è probabile una
vittoria ai punti.
(c)
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