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[14 mar 08] Sfondata anche la barriera dei 110 dollari al barile. Solo pochi giorni fa, il sorpasso della fatidica “quota 100”, considerata da molti la soglia di sicurezza oltre la quale l’economia mondiale sarebbe collassata. Ma evidentemente oggi il petrolio non è più l’unico motore della produzione, come si credeva anni fa, quando si guardava alla “quota 100” come a una sorta di Colonne d’Ercole. Grano e petrolio rimangono comunque le due materie prime fondamentali, i cui prezzi, in forte aumento negli ultimi mesi, incidono sul costo della vita a livello addirittura globale.La corsa al rialzo del prezzo del petrolio non accenna ad arrestarsi. Picco della produzione o speculazioni? Piuttosto, l'impennata di oggi sembra riflettere per lo più la continua svalutazione della moneta Usa. A preoccupare, però, non dovrebbe essere tanto, o non solo, il prezzo delle risorse energetiche più richieste – gli idrocarburi – ma anche l’uso politico e geostrategico che ne fanno i Paesi produttori, i quali guarda caso controllano in modo assoluto le loro risorse attraverso società interamente di proprietà dello Stato. Occorre infatti, sfatare un primo mito riguardo il petrolio. Si continua a pensare che le grandi multinazionali occidentali siano in grado di controllare il mercato petrolifero. Niente di più falso: la quasi totalità delle riserve di idrocarburi sono sotto il controllo dei governi dei Paesi produttori, cui petrolio e gas garantiscono rendite elevatissime. Oggi sono quei governi, attraverso le loro compagnie statalizzate (National Oil Companies – Noc), a controllare oltre il 90 per cento delle riserve di greggio e l’80 per cento di quelle di gas naturale. Nelle mani delle prime dieci compagnie nazionali al mondo vi è più del 66 per cento delle riserve, oltre un terzo della produzione mondiale, e sono tutte sotto il controllo diretto dei governi dei Paesi produttori.
La Exxon Mobil, la prima multinazionale petrolifera al mondo, è solo al quattordicesimo posto, con 22 miliardi di barili, ma possiede meno della metà della più piccola delle Noc, quella libica. Ne consegue che il potere contrattuale è saldamente nelle mani dei governi dei Paesi produttori, cui va dal 98 per cento, nel caso dell’Iran, al 73 per cento nel caso dell’Angola, dei redditi del petrolio. Se consideriamo che spesso non si tratta di attori internazionali affidabili, ecco che al problema del prezzo di queste risorse si aggiunge anche quello relativo al loro uso politico e, quindi, della sicurezza di approvvigionamento. Ma se guardiamo alla struttura dei mercati energetici, ci accorgiamo che tra quello del petrolio e quello del gas c’è una profonda differenza. I Paesi industrializzati consumano il 60 per cento della produzione mondiale di petrolio ma, nell’insieme, detengono appena il 4 per cento delle riserve. Tra i Paesi produttori, solo cinque, tutti del Medio Oriente (Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti), dispongono del 65 per cento delle riserve mondiali, a fronte di un consumo totale pari al 7 per cento. La Russia possiede il 5 per cento delle riserve, seconda solo all’Arabia Saudita, e gran parte della sua produzione è destinata all’Europa e all’Asia. Nonostante queste asimmetrie tra produttori e consumatori, si può sostenere che il mercato petrolifero mondiale sia sostanzialmente aperto e concorrenziale. Anche perché ormai sul prezzo al barile i costi di trasporto risultano relativamente ridotti e ciò consente di far arrivare petrolio da qualsiasi parte del mondo a costi non eccessivi. Una situazione del tutto diversa troviamo nel mercato del gas, che più interessa l’Europa, e soprattutto l’Italia. Innanzitutto, perché a differenza del petrolio, che costa caro ma c’è, il gas ha problemi di sicurezza di approvvigionamento. Questo perché si tratta di una risorsa difficilmente trasportabile. Quindi, non esiste ancora un mercato mondiale del gas, ma solo regionale, a causa degli elevati costi di trasporto: liquefazione, shipping e rigassificazione influiscono per una percentuale compresa tra il 30 e il 45 per cento sull’attuale prezzo del gas.
Oggi l’Europa per il gas dipende al 61 per cento dalle importazioni. E i consumi continuano a crescere, spinti in particolare dall’accordo di Kyoto, che, in poche parole, prevede minor uso di carbone e un maggior utilizzo di gas. Si calcola che nel 2020 l’Europa importerà l’86 per cento del proprio fabbisogno di gas e per la stessa data l’Italia ne importerà addirittura il 96 per cento. Ma da chi? L’Europa, e ancor più l’Italia, sono già dipendenti da un oligopolio di fornitori: la Russia e l’Algeria. L’Italia, in particolare, dipende per il 34 per cento dall’Algeria e per il 28 per cento dalla Russia. Russia e Algeria, dunque, ma anche Nigeria e Iran, saranno sempre più pilastri essenziali del fabbisogno energetico europeo. E sono Paesi certo non politicamente affidabili. Ecco perché, oltre che del prezzo del petrolio, dovremmo preoccuparci della nostra dipendenza da attori internazionali che sempre più mostrano di voler utilizzare le loro risorse come strumenti di politica estera, se non come vere e proprie armi di ricatto dal punto di vista geostrategico. L’Europa ha quindi un interesse strategico e vitale nel potenziare il proprio sistema di infrastrutture per il trasporto e la liquefazione del gas, perché più riusciremo a connettere i diversi mercati nazionali e internazionali, più ci garantiremo, attraverso la globalizzazione del mercato, una diversificazione degli approvvigionamenti tale da sfuggire all’eventualità di trovarci sotto il ricatto energetico di uno o più fornitori.
In particolare, noi italiani siamo in una posizione ancor più delicata. L’Italia infatti è il Paese al mondo con più energia elettrica prodotta dal gas, l’unico ad aver fatto questa discutibile scelta, che al momento ci costringe a fare di tutto – senza andare troppo per il sottile su altre questioni nei rapporti con i fornitori – per avere il gas che ci serve, nella quantità adeguata, al minor prezzo. Ma la scelta di una dipendenza così marcata dal gas per la produzione di energia elettrica va gradualmente e progressivamente ribaltata, anche ripensando al nucleare, perché alla lunga si scontra con la sicurezza dell’approvvigionamento. L’Italia detiene un altro record negativo mondiale. Importiamo, mediamente, circa il 15 per cento dell’energia elettrica che consumiamo. Il secondo importatore di energia al mondo, almeno per quanto riguarda i Paesi europei delle nostre dimensioni, è il Regno Unito, ma solo per il 3 per cento del suo fabbisogno. Dunque, per l’Italia dotarsi di infrastrutture di rigassificazione – almeno cinque, ferme restando le necessarie valutazioni di sicurezza e di trasparenza per definire la loro collocazione – e investire in altre fonti energetiche, come il nucleare, è non solo una necessità per rendere più produttiva e competitiva la sua economia, ma anche una priorità per la sicurezza nazionale. E più di ogni altro Paese dovremmo promuovere la costruzione di una rete europea per il trasporto e la rigassificazione del gas, altrimenti saremo ancora più dipendenti da Algeria e Russia di quanto non siamo già.
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