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[28 feb 08] Grazie ad un'operazione realizzata congiuntamente con i servizi segreti tedeschi la magistratura di Bochum ha aperto esattamente due settimane fa un'inchiesta a carico dell'amministratore delegato di Deutsche Post Klaus Zumwinkel, accusato di aver trasferito un milione di euro in conti segreti nel Principato del Liechtenstein. Zumwinkel non è però che la punta di un iceberg dalle proporzioni inverosimili, giacché con lui sono state indagate quasi un migliaio di persone e la frode ammonterebbe, secondo alcune stime, a 3,4 miliardi di euro. Sotto accusa ci sono innanzitutto gli stipendi da capogiro di alcuni super-manager, in secondo luogo il cosiddetto meccanismo della “porta girevole” tra consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza che impedisce una reale trasparenza e infine il segreto bancario vigente in Liechtenstein. Sull’argomento abbiamo intervistato Alberto Mingardi, direttore generale dell'Istituto Bruno Leoni.
Di fronte ad un ennesimo scandalo finanziario, l’Ocse ha chiesto che paradisi fiscali come Andorra, Monaco e Liechtenstein la smettano di minare alla radice la stabilità dei paesi dell’Ue e introducano regole di controllo più severe. Sul Sole 24 Ore della scorsa settimana, Riccardo Sorrentino ricordava come in Liechtenstein ci siano 40-45mila fondazioni (a fronte di 35mila abitanti) che non sono tenute ad avere un bilancio e funzionano come società segrete. Lei come la vede? C’è o no un problema di trasparenza?
Forse è il caso di chiederci se crediamo ancora nella sovranità nazionale, oppure no. Se la risposta è sì, mi pare evidente che le regole che vigono in Liechtenstein si scrivono in Liechtenstein, non a Bruxelles. Quelle regole possono piacere o meno: nessuno è tenuto ad imitare il modello di Vaduz. Similmente, però, non capisco perché non riconoscere a questo piccolo principato il diritto di provare a sviluppare una propria via alla prosperità ed allo sviluppo economico. Mi lasci dire un'altra cosa. Coi capitali dovremmo avere parametri di giudizio simili a quelli che abbiamo per le persone. La “colpa” degli esuli cubani a Miami è del lassismo degli americani, o piuttosto delle condizioni imposte da Fidel Castro al suo Paese per anni? Facciamo un altro paragone, quello con un fuggiasco scappato dalla galera e ricevuto in buona fede da una famiglia ospitale. Sono questi ultimi ad essere complici, o i secondini a non aver fatto il proprio dovere? Insomma: chiediamoci perché i capitali migrano, in prima battuta. E se c’è un illecito, distribuiamo come si deve le responsabilità, cominciando dai controllori che non controllano.
Alcuni economisti, tra cui Paul Kirchhof, consigliere economico di Angela
Merkel ai tempi della campagna elettorale del 2005, ritengono che
all'origine del problema ci sia l’elevata tassazione e la farraginosità del
sistema impositivo della Germania, risultato 102esimo su 102 Paesi in quanto
a chiarezza in una classifica stilata dal World Economic Forum. Kirchhof
chiede una riforma del sistema fiscale che preveda l’introduzione della flat
tax. E’ una soluzione valida affinché simili inconvenienti non si ripetano
più?
Il contrario del paradiso è l’inferno. Perché un inferno fiscale dovrebbe essere meglio di un paradiso fiscale? E’ chiaro che se i grandi Stati dell'Europa continentale avessero una tassazione meno predatoria, evadere sarebbe più costoso: a parità di rischio e sanzione, i benefici sarebbero inferiori. Quindi probabilmente si evaderebbe di meno.
In questa vicenda c’è un particolare che viene ancora abbastanza
sottaciuto. L’inchiesta è stata avviata perché i servizi segreti hanno
pagato quasi cinque milioni di euro ad un informatore segreto del
Liechtenstein per un dvd che conteneva i tabulati bancari dei potenziali
evasori. Alcuni hanno definito questi metodi da Gestapo. Lei è d’accordo
oppure la lotta all’evasione merita di essere portata avanti con ogni mezzo?
Mi sembra che “metodi da Gestapo” sia una formula condivisibile ed efficace. Questa spy story svela il volto arcigno della lotta all'evasione. Per lo Stato, tutti i mezzi sono buoni per mantenere salda la presa sulla sua base imponibile. Ma è più grave che sia un cittadino ad evadere le tasse, o lo Stato, che rappresenta la collettività dei cittadini, a macchiarsi di corruzione? E ancora, immaginiamo di riconoscere allo Stato il diritto di incamerare una parte dei nostri redditi, siamo davvero sicuri di riconoscere parimenti a quel diritto dello Stato preminenza su, per esempio, il diritto alla privacy degli individui? Le conseguenze inintenzionali di una lotta senza quartiere all'evasione contemplano una seria erosione delle libertà e dei diritti individuali. E’ un prezzo che vale la pena pagare?
Tornando al Liechtenstein, Vaduz ha fatto sapere di non voler rinunciare
al segreto bancario e il ministro della Giustizia del Principato ha difeso
il ruolo delle fondazioni. Eppure sembra che il Liechtenstein sia pronto a
cedere e a varare nuove norme per collaborare con la magistratura degli
altri Paesi. D’altronde, se eccezioni sono state fatte per gli Stati Uniti
nel 2002, perchè i regnanti non dovrebbero farle anche con l’Ue? Questo
cedimento non è forse un segno di ammissione per aver oltrepassato un po’
troppo i limiti della competitività fiscale?
Il segreto bancario, cioè il riconoscimento del diritto di un individuo di divulgare a suo piacere informazioni circa la sua ricchezza allo Stato, è un pilastro della civiltà. In un Paese che abbia effettivamente a cuore i diritti dei suoi cittadini, dovrebbe essere fra i valori indisponibili. Ad ogni modo, l'onere della prova dovrebbe stare dalla parte di chi vuole, per ragioni serie e in virtù di preoccupazioni gravi, una deroga al segreto, non il contrario.
Giuseppe Vita, presidente del consiglio di sorveglianza dell'editore Axel
Springer e a lungo presidente del consiglio di gestione del colosso
farmaceutico Schering, ha criticato dalle pagine del Sole 24 Ore la
globalizzazione e le sue tendenze immorali. Se il divario tra gli stipendi
dei manager è diventato pazzesco, la colpa, dice, è della globalizzazione,
dal momento che ormai il successo personale si misura solo con salari e
stock options. Lei è d’accordo?
Va molto di moda criticare le stock options, ma bisognerebbe ricordare
che si tratta di una risposta (per quanto imperfetta) al dilemma
principale-agente che vede da una parte gli azionisti, dall'altra il
management delle imprese. Allineare gli interessi di manager ed azionisti è
la questione che le stock options volevano risolvere. Se in qualche caso ci
sono stati degli abusi, questo non giustifica la faciloneria con cui si
pontifica sulla crisi dei valori che i super-stipendi testimonierebbero.
Quello che conta è che un manager abbia prodotto valore per i suoi
azionisti. Dove sono, poi, le tendenze immorali della globalizzazione?
Stiamo parlando di un fenomeno che ha fatto partecipare ai circuiti della
creazione di ricchezza milioni di persone, un processo che ha permesso a
esseri umani in carne ed ossa di smettere di soffrire la fame, di comprarsi
una bicicletta e poi una macchina, di godere della dignità del lavoro, di
fare studiare un poco di più i propri figli. La globalizzazione è un
processo sommamente morale. Non c'è nulla di cattivo nel guadagnare tanto,
non c'è nulla di bello nel guadagnare poco. L’importante è non aver rubato
nulla ai propri simili, e costruire le proprie grandi o piccole fortune
sulla propria capacità di servire attraverso il mercato gli altri membri
della società. Da ciascuno secondo come sceglie, a ciascuno secondo com'è
scelto: è questo il principio di giustizia della società libera. Poi, per
carità, il mondo è complicato. I board tendono ad essere autoreferenziali,
ci sono conflitti di interesse, fenomeni di corruzione, e molti chiaroscuri.
Non è un problema del sistema capitalistico: è che anche i capitalisti sono
esseri umani.
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