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[08 apr 08]

L'Italia tra voto e mozzarelle

Della campagna elettorale italiana vista dall’estero, riportiamo scarni reportage ogni settimana nella rubrica Trans Europa Press. Dall’osservatorio berlinese, azzardiamo un giudizio drastico: cosa accadrà in Italia domenica prossima non interessa quasi a nessuno. Certo, negli ultimi giorni un po’ di commenti riporteranno per dovere di cronaca l’attenzione della stampa straniera su Montecitorio e dintorni. Dubito che questo obbligo incontrerà anche l’interesse del lettore tedesco o inglese o francese, nonostante da queste parti siano più curiosi di quel che succede altrove rispetto a noi. La politica italiana non è più un fenomeno da esportazione, neppure per criticarla. Qui in Germania, ad esempio, dove l’antipatia per Berlusconi ha tenuto banco negli anni passati, il fatto che il leader del centrodestra possa tornare al governo viene visto solo come un’ulteriore conferma che nulla di nuovo avviene sotto il sole italiano. Questo disincanto dovrebbe rappresentare un problema per la coalizione guidata dal Cavaliere, che dopo tanti anni non è riuscita a trovare il modo di spiegarsi all’opinione pubblica europea, neppure a quella di area conservatrice. Tanto più che il Popolo della libertà si candida a diventare il polo italiano del Partito popolare europeo, con la novità dell’integrazione de facto di Alleanza nazionale. Ma la cosa non pare preoccupare una leadership che si è spesso, colpevolmente, poco curata di quello che accadeva al di là del cortile di casa. A sinistra, invece, funziona un po’ di più lo schemino che la stampa simpatizzante ha preparato per raccontare la sfida di Walter Veltroni. Sarebbe l’Obama italiano, anche se i lettori più smaliziati sospettano che si tratti di una copia sbiadita. Devono aver visto su YouTube il video di seconda mano realizzato da Giobbe Covatta e Neri Marcorè.

Tuttavia, neppure Veltroni accende più di tanto l’entusiasmo dei commentatori o l’interesse dei lettori. Come si diceva, la politica tricolore non è merce d’esportazione. Sull’Alexanderplatz non se ne parla. Si parla invece, e visto il tono questo sì dovrebbe preoccupare, di altre merci che da qualche tempo rappresentano uno dei pochi fiori all’occhiello dell’Italia. Si parla di mozzarella e vino rosso. Si potrebbe fare dell’ironia e ricordare quanto poco sia cambiata l’immagine dell’Italia dai tempi della pizza e degli spaghetti. E invece è cambiata. Un po’ ci si deve accontentare: ammainate le bandiere presuntuose degli anni Ottanta, con i capitani d’industria che non ci sono più, la Fiat ridimensionata (e per fortuna che almeno s’è salvata), l’Alitalia sull’orlo del fallimento tra sindacati corporativi e orgogliose cordate fantasma, invecchiati o scomparsi anche tutti gli stilisti che hanno fatto grande la nostra moda, c’è rimasto il settore alimentare. Un po’ ci si può consolare: la nouvelle vague alimentare italiana non è legata al cliché “pizza e pummarola” degli anni Sessanta ma alla qualità e al gusto di sapori genuini e raffinati tipica di questi tempi. In epoca di biologico e sofisticatezza, lo slow-food tricolore sembra essere l’unica alternativa occidentale allo strapotere dei sapori asiatici e, soprattutto, all’inarrestabile avanzata del sushi.

E’ come se, consapevolmente o meno, il sistema Italia, colpevolmente ritiratosi dai settori tradizionali e incapace di inserirsi in quelli moderni dell’alta tecnologia, si fosse riservato una nicchia, ristretta ma lucrosa, nel settore dell’alta “tecnologia” eno-gastronomica. L’aceto balsamico, le insalate fantasiose, le paste leggere, il vino di qualità proveniente anche dalle regioni del Sud e la mozzarella (di bufala e non) sono diventate le metafore di una vita moderna capace di ritagliarsi spazi di gusto e piacere. Visto che facciamo fatica a imporci nei campi che riguardano il tempo del lavoro, ci siamo specializzati con successo per eccellere in quello del tempo libero. Italia meta della dolce vita, una nuova etichetta non cinematografica che spinge anche il turismo: dati i prezzi di alberghi e ristoranti, spacciamo almeno l’idea che come le cose si gustano da noi, non si gustano da nessun’altra parte. Su questo filone prosperano, all’estero, anche i tanti ristoranti italiani, fonte di ricchezza per molti emigranti che hanno raffinato i propri menù dando del nostro Paese un’immagine moderna. E un crescente numero di piccoli e raffinati esercizi commerciali che, affiancando sul lato qualitativo la grande distribuzione, fa da volano all’export alimentare italiano. Tutto si tiene.

Ecco perché le notizie di alterazioni alimentari che nelle ultime settimane hanno coinvolto due prodotti simbolo del made in Italy come la mozzarella e il vino sono potenzialmente più devastanti che quelle sulla politica. Della diossina elettorale, delle schede sbagliate, delle accuse di brogli non trapela neppure una riga. Ma fiumi di articoli raccontano con dettagli a volte anche esagerati, con tono fra l’allarmato e il compiaciuto, la diossina nella mozzarella e le polverine nel vino. La concorrenza nel settore è fortissima, l’informazione spesso approssimativa e tendenziosa. E lasciare sfogare questa campagna allarmistica senza trovare il modo di contrastarla può risultare esiziale. Ci vorrebbe un intervento forte, sia per rassicurare il consumatore straniero sulla capillarità e severità dei controlli che su quello della fermezza nei confronti di coloro che hanno frodato. E una campagna informativa seria e onesta per circoscrivere il fenomeno, prima che dilaghi la psicosi.

La famosa piccola e media impresa italiana, fagocitata in altri settori dalla globalizzazione, ha trovato rifugio nel settore alimentare ma potrebbe non reggere l’impatto di una disaffezione della clientela estera. L’export alimentare è un punto di forza. Ma non una parola, non un commento, non un intervento è capitato di leggere o sentire da parte italiana sui media europei a contrasto di reportage allarmistici su caseifici messi in quarantena e su bottiglie di Brunello di Montalcino da gettare in discarica. C’è da chiedersi di chi sia la responsabilità di questa assenza, che potrebbe costare cara a uno dei settori che in questi tempi di declino ancora tiene alto il fatturato e l’immagine dell’Italia.

 

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