Il terrorismo
islamico non è soltanto l’11 settembre. Su quell’evento epocale il
senso comune occidentale ha elaborato la visione di un nemico che
distrugge chiunque si ponga fuori dalla sua identità. I terroristi
non hanno una cittadinanza, un governo, un territorio. Non hanno uno
Stato, né ambiscono a fondarne un altro. Nella mentalità
dell’islamismo estremo lo Stato rappresenta un fattore di
organizzazione ormai superato, imposto dalla colonizzazione
occidentale per essere adoperato come guinzaglio con cui i governi
occidentali sono riusciti ad ammansire gli spiriti ribelli
dell’Islam. Il vuoto di una dottrina dello Stato contribuisce a
scalfire l’immagine stereotipata dell’Islam come blocco granitico
che si estende su ogni palmo di terra musulmana e domina ogni uomo
di lingua araba. Anche lo scontro di civiltà è un’altra metafora
difficile da adattare alla realtà perché non è la civiltà musulmana
a entrare in collisione con la civiltà occidentale, quanto un terzo
elemento, cioè i terroristi, che però non sono una civiltà in senso
classico.
Civiltà è un concetto imbevuto di realtà occidentale. I
terroristi islamici sono una creatura partorita nell’epoca
pre-moderna che ha scansato la modernità per saltare in
sella alla globalizzazione del terzo millennio. Un mostro
con due teste: un’identità impastata nella sabbia e nel
sangue che si ritrova ad operare nell’età di Internet. Il
disinteresse per una dottrina dello Stato, il fascino
magnetico sui giovani che fa parlare di seconda (o terza, a
seconda dei calendari) generazione di baby Bin Laden,
l’affinità elettiva per tutto quanto fa comunicazione e
immagine. Sono indizi che raffigurano il terrorismo islamico
come una fenomenologia che non sta dentro alla categoria del
“nemico”. La conferma è che i terroristi islamici lottano
anche contro gli arabi. Non vuol dire che i terroristi di
Londra siano gli stessi che fanno esplodere bombe in
Medioriente. Il terrorismo internazionale cambia pelle
quando il suo bersaglio non è un infedele ma un altro
musulmano nato e cresciuto sul suolo arabo. Cambia la
strategia, cambiano gli obiettivi, cambiano i militanti – ma
non il fine: dilatare la sfera religiosa fino ad assorbire
ogni ambito di vita. È il fronte interno. Qui il terrorismo
abbandona l’invisibilità con cui si mimetizza nella realtà
occidentale per acquistare una visibilità quasi ostentata.
Dall’oscurità notturna alla luce del giorno.
Il
Pakistan è un caso paradigmatico. Islamabad è sede della più
grande moschea dell’Asia e una delle principali della
galassia musulmana. I suoi cinquemila metri quadrati di
estensione furono ultimati nel 1986 dopo dieci anni di
lavori finanziati dall’Arabia Saudita (circa 120 milioni di
dollari attuali). La moschea consacrata al re saudita Faisal
è un colosso architettonico che materializza il corposo
ruolo sociale occupato dall’Islam nel sistema Pakistan. Ma
questo spirito religioso continua ad impregnarsi di
influenze estremiste. Durante la preghiera del venerdì il
Khateeb (leader religioso) di Lal Masjid (la moschea di
Lal), il Maulana Abdul Aziz, invoca puntualmente
l’instaurazione di una corte islamica, composta da dieci
muftì, per applicare la sharia. L’impegno è stato
sottoscritto con la minaccia di attentati suicidi qualora il
governo osasse resistere. Il potere religioso non tollera
ostacoli e neppure violazioni ai suoi precetti: i bordelli e
i negozi che vendono film e musica straniera devono
chiudere; il governo deve impedire le pubblicazioni di
immagini oscene e contrarie alla morale islamica;
l’influenza occidentale sul Pakistan deve essere scacciata
come un demone maligno.
La
crociata dell’integralismo musulmano all’interno del
Medioriente vuole intercettare il largo malcontento delle
masse presentandosi come paladina degli oppressi.
L’equazione è: miseria uguale negazione dell’Islam. Insieme
al fratello Abdul Rashid Ghazi, Abdul Aziz è il leader della
madrassa Jamia Hafsa, la più grande scuola islamica
femminile del mondo e tra le più arroventate di estremismo.
Con oltre 6500 iscritti, la madrassa ha acquisito visibilità
internazionale nello scorso febbraio, quando le sue
studentesse hanno inscenato una manifestazione contro il
tentativo del presidente Musharraf di radere al suolo il
loro edificio scolastico. Poi a marzo le stesse studentesse
hanno effettuato un’incursione in un bordello sequestrando
la famiglia del gestore e rilasciandolo solo dopo che le
autorità avevano scarcerato due insegnanti arrestate per
l’incursione. E poi i falò per bruciare cd con canzoni
anti-islamiche, accompagnato da esplicite minacce ai
commercianti che non si adeguano. Gli studenti delle due
madrasse – l’altra, per studenti maschi, è Jamia Farida –
attraggono i loro alunni principalmente dalla provincia
della frontiera nord-occidentale, al confine afgano, regione
abitualmente corrosa da infiltrazioni talebane ed
estremiste. È stata questa madrassa a scagliarsi duramente
contro il governo per le operazioni militari in Waziristan.
Ora la prepotenza della moschea di Lal ha raggiunto un
livello tale che i suoi studenti sferrano attacchi di massa
contro la polizia e l’esercito, mentre le studentesse
inneggiano alla sharia, unendo i sessi in una perversa
eguaglianza. Ecco il volto “domestico” dell’islam, che
occupa un ruolo egemone nell’educazione per fonderla con la
vita pubblica e indottrinare la gioventù in base ai canoni
della sharia.
Manca
solo l’egemonia sulla politica. Ma niente partiti ed
elezioni. Per destabilizzare l’autorità pubblica al punto da
sottometterla alla volontà degli islamisti serve una
cassetta degli attrezzi diversa da quella della democrazia.
Ma anche dello stesso terrorismo come viene attuato contro
l’Occidente: sul fronte interno il terrorismo islamico si
prefigge obiettivi che non richiedono più le tecniche
classiche. È un gioco rischioso, perché gli islamisti devono
trasformarsi in un tarlo che logora le istituzioni, in un
megafono che assorda l’opinione pubblica, in un tribunale
permanente che persegue, giudica e condanna la morale
pubblica e privata. Ma tutta questa pressione violenta non
deve oltrepassare la soglia della paralisi istituzionale,
perché in quel caso gli islamisti non dispongono di un reale
progetto di governo perché non sanno come sostituire lo
Stato. Anche qui il Pakistan è emblematico. Più il potere
autoritario di Musharraf si inasprisce, più il Pakistan fa
un passo avanti sul ciglio del burrone. Sotto c’è il vuoto
della crisi istituzionale, anticamera dell’anarchia e del
conflitto tra schegge del potere: Palestina all’ennesima
potenza. È successo in Afghanistan, potrebbe succedere di
nuovo. Ma non rientra negli obiettivi degli islamisti, che
sarebbero travolti dal vortice del caos. Il terrore in
Occidente e il dominio in Oriente. Il sole e la luna secondo
il terrorismo islamico, che ora sta azzannando il Pakistan.
Ma quando il terrorismo diventa Caino il suo obiettivo è
schiavizzare Abele e ogni altro fratello – non ucciderlo.
(c)
Ideazione.com (2006)
Home
Page
Rivista | In
edicola | Arretrati
| Editoriali
| Feuilleton
| La biblioteca
di Babele | Ideazione
Daily
Emporion | Ultimo
numero | Arretrati
Fondazione | Home
Page | Osservatorio
sul Mezzogiorno | Osservatorio
sull'Energia | Convegni
| Libri
Network | Italiano
| Internazionale
Redazione | Chi
siamo | Contatti
| Abbonamenti|
L'archivio
di Ideazione.com 2001-2006