In Turchia
sale la febbre delle elezioni legislative del 22 luglio, che saranno
probabilmente cruciali per il paese. Lo scontro politico in atto tra
kemalisti e islamisti è molto forte, ma è anche più complesso e
sfumato di quanto sembri a prima vista. Si arriva infatti alle
elezioni sull’onda del braccio di ferro tra il partito
post-islamista Giustizia e Sviluppo (Akp) del premier Tayyp Erdogan
e l’opposizione laica progressista e nazionalista, autorevolmente
sostenuta dalle forze armate turche. La causa scatenante dello
scontro, dopo cinque anni di coabitazione costruttiva tra laici e
post-islamisti, è stato il rinnovo della presidenza della
Repubblica, carica tradizionalmente appannaggio di un kemalista
gradito ai militari, per il quale il governo Erdogan ha candidato il
suo ministro degli Esteri Abdullah Gul. I militari e l’opposizione
sia di sinistra (Partito repubblicano del popolo, Chp), che di
destra (Partito di azione nazionale, Mhp) hanno chiesto una
personalità di garanzia dell’impianto kemalista dello Stato turco e
si sono duramente opposti in Parlamento, nelle piazza e nei
tribunali, ai tentativi dell’Akp di insediare Gul alla presidenza. I
vertici delle forze armate turche sono arrivati a ventilare anche
una loro azione nel caso che la laicità e l’integrità nazionale
della Turchia fossero messe in pericolo da derive islamiste. Lo
hanno fatto intuire quando la maggioranza parlamentare dell’Akp ha
approvato una legge per l’elezione popolare del presidente della
Repubblica, bloccata però dal veto proprio del presidente uscente,
il kemalista Sezer. Per sciogliere il nodo gordiano il Parlamento
turco alla fine ha deciso all’unanimità di usare la spada delle
elezioni legislative anticipate.
In un
clima infuocato si sta svolgendo, dunque, la campagna
elettorale. Secondo il sondaggio riportato dall’Economist
del 16 giugno “il partito di Erdogan potrebbe ottenere un
risultato migliore del 34 per cento delle elezioni del
2002”. Infatti il primo partito dell’opposizione sarebbe il
progressista Chp accreditato del 22 per cento, seguito dal
nazionalista Mhp con l’11 per cento. Considerato che la
legge elettorale turca pone una soglia di sbarramento al 10
per cento, sempre secondo l’Economist l’unico altro partito
che entrerebbe in Parlamento sarebbe quello dei curdi: “il
filo curdo Dtp si aspetta di conquistare 30 seggi, anche
grazie alla candidatura di 40 personaggi indipendenti”.
Sbaglierebbe però l’osservatore superficiale che vedesse in
queste elezioni una scelta di campo tra Islam e Occidente.
L’errore appare evidente se si considerano in primo luogo i
risultati di cinque anni di governo monocolore dell’Akp, che
ha liberalizzato e stabilizzato l’economia e introdotto
importanti riforme liberali per rispettare i criteri per
l’ingresso nell’Unione Europea. In secondo luogo perché il
monito delle forze armate, ed i milioni di turchi scesi più
volte in piazza tra aprile e maggio, hanno avuto il salutare
effetto di spingere Erdogan a spostare il baricentro del suo
partito verso il centro. Secondo un articolo del Financial
Times del 3 luglio, “l’Akp ha escluso dalle candidature
elettorali circa 150 tra i suoi rappresentanti più
reazionari, sostituendoli con personaggi nuovi, giovani e
dall’estrazione borghese”.
Uomo-immagine di questa operazione di rinnovamento e di
“tranquillizzazione” dell’elettorato e dell’establishment
kemalista, portata coraggiosamente avanti dalla leadership
dell’Akp, è Mehmet Simsek. Nato non lontano dal confine con
l’Iraq da genitori curdi, poveri e analfabeti, si è fatto
strada arrivando a laurearsi all’università di Ankara, per
poi lavorare a Londra alla Merrill Linch e sposare una
cittadina americana. Sempre secondo il Financial Times
“insieme a Simsek questo nuovo gruppo include persone del
mondo della finanza, del commercio e delle professioni, e
intellettuali come l’ex direttore della sezione turca del
German Mashall Fund Kimiklioglu”. Cosa può dunque augurarsi
chi guarda alle vicende turche dalla sponda europea del
Mediterraneo? In primo luogo che le elezioni e la formazione
del successivo governo si svolgano pacificamente e senza
interventi militari: questo sarebbe un importante esempio di
democrazia in un grande paese islamico, ed in questo momento
ce ne è davvero bisogno in tutta la travagliata regione che
va dal Marocco al Pakistan. In secondo luogo occorre
augurarsi che la soglia di sbarramento non strangoli
l’opposizione parlamentare, come avvenne nel 2002 quando a
causa della frammentazione partitica solo uno tra i sei
partiti laici con un cospicuo numero di voti raggiunse il 10
per cento e l’Akp, con il 34 per cento dei consensi, ottenne
i due terzi dei seggi. Se si verificassero entrambe tali
condizioni ed il partito di Erdogan dovesse, come sembra
probabile, conquistare la maggioranza assoluta dei seggi
formando un governo moderato, tale esito rappresenterebbe un
passo importante verso la piena integrazione nella
democrazia nazionale turca delle sue masse islamiche. E
questa sarebbe una buona notizia non solo per la Turchia, ma
per tutta l’Europa.
(c)
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