Il colpo di
Stato di Hamas a Gaza ha cambiato radicalmente lo scenario
israelo-palestinese e Israele e Stati Uniti stanno adattando le
proprie strategie nella regione scommettendo tutto su Abu Mazen e la
Cisgiordania. Oggi Hamas governa la Striscia, dove gli uomini di
Fatah sono stati uccisi o messi in fuga. Il presidente dell’Anp, Abu
Mazen, ha invece nominato un governo monocolore di Fatah che
esercita l’autorità sulla Cisgiordiania, dove però i miliziani di
Hamas mantengono una certa presenza e capacità di azione. Intanto il
parlamento palestinese è bloccato: Hamas detiene 74 seggi, ma
essendo 39 dei suoi deputati nelle carceri israeliane i 45 eletti di
Fatah avrebbero la maggioranza, e perciò i superstiti di Hamas
boicottano le sedute per far mancare il quorum necessario alle
votazioni. Tale stallo permette di fatto ad Abu Mazen di mantenere
in carica un esecutivo che non ha ricevuto la fiducia del Parlamento
e del popolo palestinese, finché non si scioglierà il nodo di
eventuali elezioni anticipate. In tale situazione Israele ha colto
al balzo l’occasione per applicare fino in fondo la sua strategia di
isolamento di Hamas, considerato da Tel Aviv un movimento terrorista
col quale non è possibile trattare, sostenendo invece in maniera
davvero eccezionale e inusuale l’Anp di Abu Mazen.
Gli israeliani
considerano ormai la Palestina divisa in Hamastan e Fatahland e
trattano in modo ben diverso i due territori. Mentre Gaza è tenuta
sotto pressione dall’esercito e dai servizi segreti israeliani per
bloccare tanto le incursioni di Hamas quanto i rifornimenti verso la
Striscia, Olmert ha rilasciato 250 miliziani palestinesi detenuti
nelle carceri israeliane, la stragrande maggioranza dei quali
appartenenti a Fatah, alcuni a formazioni nazionaliste minori e
nessuno ad Hamas. In seguito, come riporta l’International Herald
Tribune del 16 luglio, “per la prima volta Israele ha deciso di
togliere dalla sua lista di ricercati 178 militanti di Fatah (…) ed
ha dato un permesso eccezionale a diversi esiliati dell’Olp di
partecipare ad una riunione a Ramallah”. L’importanza del gesto è
testimoniata dalla presenza tra i 178 “graziati” di personaggi del
calibro di Zacaria Zubeidah, leader delle Brigate Al Aqsa a Jenin
che gli israeliani hanno cercato più volte di ammazzare prima di
decidere che Hamas per loro rappresenta un pericolo maggiore degli
elementi più duri di Fatah. Nell’ennesima applicazione della vecchia
massima “il nemico del mio nemico è mio amico”, i pragmatici
israeliani stanno dunque rinforzando i ranghi di Fatah, duramente
provati dagli attacchi di Hamas. In cambio Zubeidah ha accordato una
tregua ad Israele, per partecipare politicamente all’azione di Fatah.
In sintonia con Tel Aviv si sono mossi gli Stati Uniti, che il
giorno successivo all’annuncio di Olmert hanno stanziato 190 milioni
di dollari di nuovi aiuti per l’Anp. Contestualmente Bush ha
rilanciato una nuova conferenza internazionale di pace per il Medio
Oriente, cui dovrebbero partecipare i palestinesi e i paesi arabi
che hanno riconosciuto i precedenti accordi di pace con Israele.
L’efficacia di
tale strategia israelo-americana è ancora tutta da dimostrare. Da un
lato è certo che la situazione economica e sociale a Gaza sta
peggiorando drammaticamente. Il blocco dei principali valichi tra la
Striscia e Israele, a partire da quello di Karni, impedisce
l’import-export da cui è profondamente dipendente le debole economia
palestinese: così le produzioni di vegetali e fiori destinate al
mercato israeliano marciscono invendute, e l’80 per cento dei
lavoratori del settore privato è rimasto disoccupato nell’ultimo
mese. L’agenzia dell’Onu che si occupa dell’assistenza ai rifugiati
a Gaza denuncia l’esaurimento di medicinali ed altri beni di prima
necessità, e ha chiesto ad Israele di riaprire il valico di Karni
chiuso dal 12 giugno. Ma per attivare una dogana occorre la
collaborazione tra le autorità di entrambi i paesi confinanti e Tel
Aviv non si fida di chi governa ora la Striscia, perciò le vie di
comunicazione restano chiuse. D’altro canto Fatah non ha dimostrato
finora la capacità e la forza necessarie per reggere da sola un così
difficile processo di state-building in Palestina: come nota un
commento dell’International Herald Tribune del 18 luglio, “Fatah non
è certo senza colpe ed è per questo che i palestinesi gli hanno
votato contro, e da allora Fatah ha fatto davvero molto poco per
riformarsi”.
Di certo il
partito di Arafat si è dimostrato corrotto e inefficiente nella
gestione dell’Anp, e tuttora non ha una piattaforma politica chiara
e una forte coesione interna come i rivali di Hamas. Per sostenere
Abu Mazen, Bush ha recentemente affermato che ora spetta ai
palestinesi scegliere tra gli estremisti di Hamas e i moderati di
Fatah ma, continua l’Herald Tribune, “dopotutto i palestinesi hanno
scelto Hamas nel 2006 per governarli, e molti di loro credono che il
boicottaggio guidato dagli Usa in realtà non gli abbia dato una
reale possibilità di governo”. Ritorna il paradosso di fondo con il
quale l’Occidente trova difficile misurarsi: cosa fare quando
elezioni democratiche sono vinte da forze politiche che vogliono
sostituire la democrazia con una dittatura, laica o religiosa che
sia? Non ha tutti i torti D’Alema quando ricorda che “Hamas è una
forza reale che rappresenta tanta parte del popolo palestinese. Si è
resa protagonista di atti terroristici, ma è anche un movimento
popolare e per l'Occidente non riconoscere un governo eletto
democraticamente non è una straordinaria lezione di democrazia”.
Tuttavia una posizione di questo genere verso i partiti
anti-democratici ha fatto tanti danni in passato, e rischia di farne
anche nella situazione attuale. È facile ricordare che anche
fascismo e nazismo hanno democraticamente vinto le elezioni in
Italia e Germania, e che l’appeasement del 1938 a Monaco ha solo
rafforzato Hitler nella preparazione della Seconda Guerra Mondiale,
che comunque è avvenuta.
È ancor più
importante ricordare che mentre nell’ultimo anno l’Europa discuteva
se riconoscere o no il governo espressione di Hamas, quello stesso
governo e quello stesso partito che avevano democraticamente vinto
le elezioni ammazzavano a sangue freddo funzionari, deputati e
ufficiali di Fatah, e accumulavano armi per il golpe di Gaza. Golpe
durante il quale i miliziani di Hamas non hanno avuto nessuna pietà
né per i poliziotti dell’Anp né per i civili, uccisi a colpi di
kalashnikov, oppure gambizzati, o ancora buttati dal quinto piano
dei palazzi come il cuoco di Abu Mazen. Quest’ultimo, poi, è più
volte stato oggetto di attentati da parte di quella stessa Hamas che
D’Alema gli chiede di far sedere al suo fianco. Come ci si può
fidare ancora di Hamas dopo la guerra civile che ha scatenato a
Gaza, armata e finanziata dall’Iran di Ahmadinejad? Come si possono
dare aiuti economici alla striscia sapendo che andranno a finanziare
la costruzione di missili qassam e l’indottrinamento
anti-occidentale nelle scuole religiose? In tale difficile
situazione sostenere una Anp affetta da inefficienza e corruzione
premendo perché tenti di riformarsi e di costruire uno Stato
palestinese decente, pacifico e moderato, potrebbe rivelarsi il male
minore. De Gasperi, nell’Italia del 1948, rispondeva a chi lo
criticava per i suoi alleati nella lotta contro un Pci che poteva
vincere le elezioni democratiche per instaurare un regime non
democratico, che “ognuno costruisce con i mattoni che ha”. E
purtroppo oggi sono questi i mattoni che si trovano in Medio
Oriente.
(c)
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