Livio Tamagno
è un simpatico milionario torinese di 62 anni che ama trascorrere
l'inverno a Montecarlo - dove risiede - e le altre stagioni
dell'anno in giro per il mondo. Ma quello che più interessa è che
prima di ritirarsi a vita privata, il signor Tamagno è stato uno
degli imprenditori più famosi, e di successo, d'Europa. Scarpaio, di
estrazione pantofolaio - “mio padre ha sempre fatto questo lavoro”,
dice - per anni è stato il titolare della Defonseca, nota azienda di
babbucce che partendo da Torino ha conquistato il mercato della
ciabatta del Vecchio Continente. E non solo. Livio Tamagno è stato
anche un pioniere. Negli anni Settanta fu uno dei primissimi
italiani a recarsi in Cina per delocalizzare la produzione. “Era il
1974 - racconta - e io avevo vari negozi di calzature, tra cui uno
che era il più grande d'Italia, così ho pensato di richiedere alla
corporazione di Arts and Crafts di Shanghai il permesso di andare a
vedere come lavoravano e cosa facevano laggiù. Ho atteso sei mesi
per avere il via libera, poi sono partito”. Così, dopo avere
ottenuto il visto numero 3 dall'ambasciata della Repubblica
Popolare, che proprio nel '74 aveva aperto la sua unica sede
italiana in via di Bruxelles a Roma, dove si trova tuttora, Tamagno
è partito con la moglie alla volta dell'Impero di Mezzo. E laggiù ha
trovato la sua America. Che descrive ancora oggi con grande piacere
e un po' di nostalgia.
Presidente Tamagno, in Cina negli anni Settanta ha trovato
quello che cercava?
Non solo, sono rimasto colpito. In Cina facevano delle
pantofole meravigliose, a Shanghai abbiamo firmato un
contratto in esclusiva inizialmente per comprare il prodotto
finito, poi, con il passare del tempo, abbiamo convinto i
cinesi, che avevano mille remore, a portarci dentro le
fabbriche. Lì abbiamo inserito i nostri tecnici modellisti
per disegnare calzature che avessero uno stile più
occidentale. E abbiamo reso operativa una rete di
controllori della qualità. Ogni mese un tecnico partiva
dall'Italia e andava in Cina ad esaminare tutta la
produzione.
Come siete stati accolti?
Allora come oggi i cinesi erano molto aperti e ospitali.
Purtroppo il paese era misero, non avevano granché da
offrire. Le infrastrutture ad esempio erano scarse, poche le
strade. Tutto veniva spostato via mare e fiume, all'interno
i treni erano solo a vapore e spesso facevamo 36 ore di
viaggio per spostarci da una città all'altra. Ovviamente in
inverno non c'era riscaldamento ma non abbiamo mai patito la
fame. La Cina negli anni Settanta non era come l'Unione
Sovietica dove mancava tutto.
Le
difficoltà più grandi?
Le abbiamo trovate in Italia, con le dogane, che cambiavano
continuamente regolamento, per cui non si sapeva mai se la
merce potesse essere sdoganata o meno. Non si capiva se si
doveva andare a Milano, a Torino, a Rotterdam o in Francia.
La nostra odissea erano le dogane europee perché ogni piazza
interpretava il casellario a modo suo. Gli olandesi in modo
molto liberale, i francesi e gli italiani in modo più
restrittivo.
Dopo
quanto tempo gli imprenditori italiani hanno seguito il suo
esempio?
Subito dopo di me sono andati in Cina i produttori di
biancheria intima. Mentre invece, quando sono arrivato ho
trovato soprattutto gli inglesi, che compravano cachemire,
pellicce e seta.
Com'erano le condizioni di lavoro?
Erano quelle di un paese povero ma mai aberranti come quelle
che ho trovato, ad esempio, in Vietnam. Nel Vietnam dei
comunisti le fabbriche erano inferni, sporchissime, ci
lavoravano anche i bambini senza maschere né ventilazione.
In Cina le condizioni di lavoro non erano grandemente
dissimili dalle nostre sebbene la pulizia mancasse
totalmente. Io volevo migliorare le cose e dicevo sempre ai
cinesi che la fabbrica doveva essere pulita come un
ospedale. Loro si meravigliavano. Un giorno sono entrato in
un ospedale e ho capito il loro stupore: l'ospedale era
molto più sudicio della fabbrica!
Avete
subito i contraccolpi della politica, dei grandi cambiamenti
degli anni Settanta e Ottanta?
No. Io sono stato in Cina almeno settanta volte ma non ho
subito nessuna conseguenza di quei grandi cambiamenti.
Vedevo tutto da fuori, i miei amici cinesi mi raccontavano
quello che succedeva in modo molto pacato. Ma il business è
business e tutto continuava regolarmente.
Quante
persone lavoravano per lei?
Fino a dodicimila persone. Tra gli anni Ottanta e Novanta
abbiamo battuto il record di quantità, importavamo trenta
milioni di pantofole all'anno. Poi mi sono accorto che erano
troppe, che non valeva la pena produrre tanto perché avevamo
inflazionato il mercato. Penso che la Defonseca di oggi
produca in Cina 16 milioni di pezzi.
Oltre al basso costo della manodopera, quali vantaggi si
hanno a produrre in Cina?
L'operosità dei cinesi, la loro precisione. Le donne cinesi
lavorano con una attenzione e una continuità a noi
sconosciuta. Sono capaci di fare lo stesso pezzo per sette
anni per 14 ore al giorno con grandissima cura. Una
caratteristica dovuta al loro tipo di scrittura, se aggiungi
anche un piccolo segno a un ideogramma quello cambia
completamente significato, quindi devi sviluppare
l'attenzione per i particolari. E poi il lavoro è tutto a
cottimo, i cinesi guadagnano un tanto al pezzo e per questo
sono motivati a produrre molti pezzi.
Verso
cosa è proiettata la Cina?
Diventerà la potenza egemone del Ventunesimo secolo. I
cinesi sono tanti, crescono a una velocità spaventosa e
hanno una grandissima determinazione e operosità, come
quella che avevamo noi piemontesi quando all'inizio del
secolo migravamo in Francia. Certo, ci sono delle
grandissime differenze tra una regione e l'altra. Alcune
sono molto più arretrate e lo rimarranno. Ma anche nel campo
scientifico, nella bioetica il futuro sarà loro, noi abbiamo
troppi vincoli: i sindacati, le religioni, le tradizioni.
Tutti blocchi che in Cina non esistono.
Che
cosa consiglia agli imprenditori italiani che devono
chiudere le fabbriche perché non riescono a competere con i
prezzi cinesi?
Consiglio di delocalizzare in Cina. E poi bisogna che la
gente cominci a capire che occorre lavorare di più, che non
possiamo vivere di assistenzialismo come fanno i francesi. I
francesi lavorano 1500 ore all'anno, i cinesi 2400.
La
Cina
si democratizzerà prima o poi?
Speriamo di no, perché il regime che hanno trovato è
perfetto. Il paese cresce, gli stipendi crescono, tutto
cresce senza grandi squilibri. E non è detto che il modello
democratico a cui noi teniamo tanto per i cinesi sia il
migliore.
Quanto
tempo è durata la sua avventura cinese?
Dura ancora. Io ho venduto l'azienda ma la Defonseca lavora
oggi con le stesse fabbriche con cui lavoravamo noi
trentacinque anni fa.
(c)
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