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Corea del Nord, torna l’incubo della carestia
di
ENZO REALE
[05 giu 08] Non lontano dal teatro della disperazione birmana si sta materializzando silenziosamente un’altra tragedia umanitaria al momento quasi ignorata dai media. Dieci anni dopo l’ultima grande crisi alimentare, lo spettro della carestia aleggia nuovamente sulla Corea del Nord. Furono da uno a due milioni – in base a stime che variano a seconda delle fonti - le vittime della fame tra il 1996-1999, dopo che inondazioni di grande portata si abbatterono su una nazione già fortemente provata dal fallimento dell’economia pianificata: uno sterminio di massa che il regime non potè occultare a lungo. Il testo di riferimento su quella che la propaganda qualificò romanticamente come “L’Ardua Marcia” rimane The Great North Korean Famine di Andrew Natsios, ed è proprio dagli eventi di allora che conviene partire per capire che cosa sta succedendo oggi.
Immediata conseguenza della grande depressione fu l’arrivo in Corea del Nord di una ingente quantità di aiuti sotto forma di cibo e fertilizzanti. Principali artefici di questa mastodontica operazione di assistenza postuma furono i fratelli separati del Sud: si calcola che dal 2000 al 2006 Seoul abbia fornito annualmente, senza pretendere nulla in cambio, 450mila tonnellate di beni di prima necessità e materiale per l’agricoltura. La crescente influenza geopolitica nella regione e la preoccupazione per un afflusso incontrollato di profughi portò la Cina a seguire l’esempio e ad assumere un ruolo di protezione del regime di Kim Jong-il, sia dal punto di vista politico che da quello economico. Frutto avvelenato della Sunshine Policy e della sua strategia di concessioni unilaterali fu l’assoluta impossibilità di verificare l’effettiva destinazione di questi approvvigionamenti. Ma ancora più grave risultò la mancanza di qualsiasi accordo che legasse la continuità degli aiuti ad un concreto piano di riforme economiche da parte del governo di Pyongyang. La nascita di attività private in ambito agricolo e urbano negli anni successivi alla carestia fu determinata più dalla incapacità del partito-Stato di dare una risposta alle necessità di base della popolazione che da una reale decisione politica di allentare i controlli sulla società.
In ogni caso la formazione di un’economia di sussistenza parallela a quella statale, anche se consentì a importanti fasce di popolazione di resistere alla crisi, non costituì mai nelle intenzioni dei governanti quella correzione di rotta che sarebbe stata necessaria per rivitalizzare lo stato comatoso in cui si trovava il sistema. Kim Jong-il aveva bisogno della benevolenza di Pechino ma rifiutava il modello di sviluppo cinese. Prova ne sia che, nonostante la retorica della Juche continuasse ad esaltare un ideale di autosufficienza nazionale, la Corea del Nord diventava anno dopo anno sempre più dipendente dal soccorso esterno. La resa dei campi crebbe progressivamente fino a produrre nel 2005 quei 4,5 milioni di tonnellate che, pur restando molto al di sotto delle stime della Fao e del World Food Program (Wfp) sul raggiungimento dell’equilibrio alimentare, rappresentavano un chiaro segno di miglioramento della capacità del Paese di nutrire la sua popolazione.
Fu a quel punto che la natura del regime rivelò tutto il suo potenziale nocivo. Il Caro Leader decise di ripristinare il sistema pubblico di distribuzione degli alimenti (Pds) e di dichiarare illegali i piccoli commerci in ambito agricolo. La criminalizzazione dei mercati in quanto attività controrivoluzionarie ebbe come immediata conseguenza il progressivo smantellamento delle principali fonti di sostentamento nelle aree rurali (la stragrande maggioranza del Paese) e la confisca delle riserve di grano nelle fattorie. Contemporaneamente, la presenza degli operatori del Wfp e delle agenzie impegnate nella ripartizione degli alimenti, già fortemente ostacolata da controlli e divieti, venne drasticamente ridotta. I successivi test nucleari riportarono alla realtà perfino i sudcoreani, che si videro costretti ad interrompere l’invio di fertilizzanti, e raffreddarono non poco le relazioni con la Cina. Come se non bastasse, una nuova ondata di precipitazioni eccezionali e la recente tendenza all’aumento del prezzo del cibo a livello globale contribuiscono a completare il quadro di desolazione in cui si ritrova oggi immerso il Regno Eremita.
In soli due anni la produttività dell’agricoltura ricollettivizzata è calata a 3,8 milioni di tonnellate e la tendenza è al ribasso. Secondo Stephan Haggard e Marcus Noland, esperti di affari nordcoreani, il disastroso raccolto dello scorso anno riduce il margine tra necessità nutrizionali minime e riserve alimentari a 100mila tonnellate e l’assenza di fertilizzanti fa prevedere un biennio 2008-2009 potenzialmente catastrofico. La seconda “Ardua Marcia” è già cominciata. I segnali degli ultimi mesi sono effettivamente preoccupanti, per la popolazione ma anche per il regime. Se è improbabile che le dimensioni di questa crisi raggiungano i livelli di dieci anni fa, le sue conseguenze a livello politico potrebbero essere molto più significative per due ragioni essenziali: da una parte si sono aperte crepe nel muro di isolamento e di controllo ideologico del partito, grazie soprattutto alle informazioni e ai beni di consumo (tra cui videocassette e riproduttori di immagini) che entrano nel Paese attraverso il confine cinese; dall’altra - per la prima volta - la penuria di cibo rischia di coinvolgere anche le élites nordcoreane. Analizziamo i fatti rilevanti emersi negli ultimi mesi grazie al monitoraggio dei pochi operatori umanitari presenti sul territorio e ai contatti locali dei siti della dissidenza. Il sistema di distribuzione pubblica degli alimenti è stato sospeso da aprile ad ottobre, una misura che non ha precedenti nemmeno nell’ultima grande carestia.
Se la priorità del regime è sempre stata quella di nutrire l’esercito e i quadri dirigenti per garantirsene la fedeltà, le ultime informazioni dicono invece che gli ufficiali di grado intermedio residenti a Pyongyang non ricevono più le consuete razioni di riso e sono costretti ad utilizzare per le loro necessità quotidiane le riserve ed i risparmi accumulati; in altre province diversi funzionari sopravvivono solo estorcendo ai cittadini denaro e cibo da rivendere sul mercato nero. Il livello di disaffezione nei confronti dell’autorità sta aumentando, tanto è vero che alcuni ufficiali hanno smesso di organizzare le sessioni di propaganda proprio mentre il Caro Leader predica un “ritorno alla Juche nei metodi dell’agricoltura”. In alcuni distretti della capitale si mangia avena e molti centri di distribuzione hanno chiuso i battenti per mancanza di materia prima mentre nel centro della città, dove vive la casta dei privilegiati, si calcola che le scorte possano durare altri sei mesi. Ma in periferia la situazione è estremamente critica e nella città portuale di Nampo, che rifornisce normalmente Pyongyang, si sono già registrati alcuni casi di morte per denutrizione.
Nei principali capoluoghi del Paese il cibo si trova ma a prezzi esorbitanti: il riso si compra attualmente a 3100 won al chilo, mentre un anno fa valeva 860, e il grano a 1500 won. Un aumento impressionante, superiore perfino alla tendenza globale al rialzo e difficilmente sostenibile per un salario medio mensile intorno ai 7-8000 won. Per l’esercito, il puntello su cui si sostiene il potere di Kim Jong-il, le autorità hanno cominciato la distribuzione delle provviste accumulate in previsione di un conflitto, mentre casi concreti di penuria alimentare si sono registrati perfino in prossimità della zona demilitarizzata, dove la razione destinata ai soldati è stata dimezzata e la miscela di riso e cereali è ormai al 50 per cento. Il riso scarseggia anche nel South Hwanghae, che è una sorta di delta dell’Irrawaddy nordcoreano, dove i campi sono stati letteralmente saccheggiati per le necessità delle forze armate. Ma in generale sono il nord-est del Paese e le aree rurali quelle che stanno sperimentando le privazioni più evidenti.
Chongjin, centro industriale e tessile affacciato sul mar del Giappone, è stato teatro del più chiaro caso di insubordinazione di cui si abbia notizia ad oggi. Gruppi di donne hanno sfidato le forze di polizia che tentavano di far rispettare il divieto di commercio imposto dal regime: nella sua furia statalizzatrice il governo ha proibito agli uomini e alle donne sotto i cinquant’anni di lavorare nei mercati. La disperazione di una popolazione privata delle razioni alimentari e della possibilità di procurarsi il cibo con altri mezzi ha provocato questo inedito precedente che rischia di ripetersi nelle prossime settimane nelle campagne, dove molti contadini si stanno nutrendo di erba e radici. Nelle contee di Yangduk e Gumchun, praticamente ogni villaggio conta già i suoi morti per fame. E nelle fabbriche di munizioni, un settore strategico, c’è chi lavora senza cibo per giorni interi. I meno giovani non ce la fanno.
Questo lo scenario. Quali le soluzioni a breve termine? Oggi più che mai la sopravvivenza dei nordcoreani e purtroppo quella del regime dipendono dagli aiuti stranieri. Il primo carico è già stato stanziato ed arriverà dal “nemico americano” ad inizio giugno. Washington ha annunciato l’accordo per la fornitura di 500mila tonnellate di derrate alimentari, la cui composizione non è ancora chiara. Ma soprattutto, nonostante le rassicurazioni da parte statunitense, non si conoscono i termini esatti della distribuzione e del monitoraggio. Pare che i generi di prima necessità saranno convogliati attraverso il Wfp e una Ong privata, anche se l’incognita riguarda il grado di libertà di azione che il governo di Pyongyang consentirà loro. La notizia è che l’offerta americana è stata prontamente accettata da Kim Jong-il il quale ha manifestato pubblicamente, tramite l’agenzia di stampa ufficiale, la sua riconoscenza: “Gli aiuti del governo americano (…) contribuiranno a promuovere la comprensione e la fiducia tra i popoli dei due Paesi”, proclamava la Korean Central News Agency poche ore dopo l’annuncio di Washington. Gli Stati Uniti negano che la ripresa dell’assistenza umanitaria (interrotta nel 2005) abbia a che vedere con i negoziati sul nucleare: ma non è un caso che la disponibilità sia giunta dopo la consegna degli ultimi documenti sull’attività delle centrali nordcoreane. Bisognerà vedere che uso faranno gli americani di questa rinnovata possibilità di mettere piede in territorio proibito, soprattutto in un momento di particolare incertezza sull’effettiva tenuta dei quadri dirigenti all’interno del partito. E’ difficile però che l’amministrazione Bush ritrovi proprio adesso il nerbo necessario per imporre condizioni.
Più complicato è il caso sudcoreano. Passata la fase del soccorso incondizionato, le recenti elezioni presidenziali hanno portato al potere un presidente meno disposto a concedere aperture di credito al regime comunista. In realtà Lee Myong-bak non ha legato l’invio di aiuti a particolari impegni di Pyongyang in tema di disarmo o diritti umani, limitandosi ad esigere una richiesta ufficiale di assistenza. Kim Jong-il ha preferito rispondere con invettive contro il “governo reazionario di Seoul” e con un test missilistico a poca distanza dalla costa, chiudendo la porta ad una collaborazione quantomai necessaria. Ma nel momento dell’emergenza acuta è improbabile che il Sud si tiri indietro: l’uso di canali di smistamento indiretti potrebbe essere una soluzione capace di salvare la forma garantendo la sostanza. E’ invece dalla Cina che, paradossalmente, potrebbero arrivare le sorprese più sgradite per il Caro Leader. Pechino ha una serie di problemi legati all’inflazione e all’approvvigionamento interno: dal 2005 al 2007 il carico di aiuti inviati oltre confine si è ridotto della metà e i dazi sulle esportazioni sono sensibilmente cresciuti.
Non è un segreto poi che i cinesi si siano sentiti traditi dal test nucleare di due anni fa e soprattutto dalle mancate riforme economiche. D’altro canto l’ultima cosa che nell’anno olimpico il Partito comunista cinese può permettersi è un’ondata di rifugiati in cerca di cibo da rispedire al mittente senza troppi complimenti. Pyongyang lo sa ed è anche per questo che ha deciso di intensificare i controlli e la repressione non solo sui rifugiati ma anche su coloro che alimentano il traffico clandestino tra i due Paesi: quindici persone sorprese ad attraversare la frontiera per procurarsi mezzi di sussistenza sono state pubblicamente giustiziate lo scorso marzo. Tutto indica che proprio su quel confine si deciderà nei prossimi mesi una parte importante del destino di ventidue milioni di nordcoreani.
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