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[19 mar 08]
L'Italia arranca nelle classifiche economiche
Daniel Hamilton e Joseph P. Quinlan hanno curato un ampio rapporto comparativo su due processi paralleli: la progressiva integrazione delle economie dei 27 Paesi nell’Unione Europea e la parallela globalizzazione del mercato mondiale. In fondo sono queste due le vere novità del Ventunesimo secolo. Il rapporto, curato dai due ricercatori della John Hopkins University, ha un titolo suggestivo, Globalization and Europe: Prospering in the New Whirled Order, e può essere scaricato a questo indirizzo, nella sua edizione preliminare. L’edizione cartacea è stata edita dal Center for Transatlantic Relations, The John Hopkins University, nel 2008. Si tratta di oltre 240 pagine, ricche di tavole statistiche ed elaborazioni grafiche ma anche dense di analisi articolate che, partendo dalle evidenze statistiche, cercano di dare conto e ragione di quanto sia avvenuto in Europa, e nel mondo, negli ultimi dieci anni e di quale sia oggi la struttura attuale di questo New Whirled Order: un nuovo turbinoso ordine. La traduzione non rende il valore onomatopeico dell’inglese: to whirle è il verbo che descrive il movimento delle pale di un elicottero, tra l’altro. La domanda da cui partono gli autori è molto diretta e comprensibile: quali sono i guadagni, i benefici, e quali i danni del processo di globalizzazione, e che cosa questo insieme di conseguenze comporta per le economie europee? La risposta è interessante perché dal rapporto emerge una Europa in cui i danni non eccedono i guadagni. La risposta è meno confortante per gli italiani, perché la nostra economia viene collocata in coda: sia rispetto ai Paesi last comers in Europa, sia rispetto a molti Paesi emergenti, grazie alla globalizzazione, fuori dal nostro Continente. Circostanza, la marginalità dell’Italia rispetto al resto del mondo sviluppato ed in crescita, che si ritrova in molte graduatorie, compilate da organizzazioni internazionali variegate e diverse, anche con metriche differenti. L’Italia, ad esempio, espone una quota delle esportazioni delle imprese manifatturiere pari all’11,8 per cento nelle produzioni high tech e del 28,8 in quelle low tech. L’Europa a 15, il nocciolo duro, espone il 25,7 per cento nel caso high tech ed il 16,8 in quello low tech. Gli Stati Uniti sono sul 36 e sul 13,8 per cento.
Il Kof index è lo Swiss Economic Institute’s Index of Economic Globalization, che misura quanto i singoli mercati nazionali siano integrati nel processo di unificazione europea e se essi siano altrettanto integrati nel processo di globalizzazione. L’Italia è fuori dalla lista dei primi trenta Paesi e si colloca al trentatreesimo posto in graduatoria. Nei primi trenta ritroviamo la Lituania, la Slovacchia, la Spagna, il Portogallo, l’Estonia, il Cile, Israele e l’Irlanda. La stessa Croazia è al posto numero 31, due posizioni sopra il nostro Paese. Sia questi dati che quelli relativi al grado di innovazione tecnologica implicito nelle esportazioni di manufatti, si riferiscono al 2005. La Oecd Scorecard è una ulteriore graduatoria che si estende, come l’organizzazione da cui prende il nome, la Oecd, a molti Paesi non appartenenti all’Unione Europea. Essa offre un indicatore di quanto ogni economia nazionale disponga di ability to cope with globalisation: di quanto sia in grado di fronteggiare con successo il fenomeno della globalizzazione del mercato mondiale. Svezia, Stati Uniti e Finlandia guidano la lista di coloro che dispongono di una elevata capacità nel perseguire lo scopo. Italia, Grecia e Polonia sono le ultime tre per incapacità a fronteggiare il problema. Concludiamo con il 2007-2008 Global Competitiveness Index (Gci) of the World Economic Forum. L’Unione Europea piazza nei primi dieci posti sette delle proprie economie. Ma - e questo secondo risultato è ancora più rilevante - include 14 economie nazionali nel gruppo delle prime 25 nazioni più competitive del mondo. L’Italia, collocata al posto numero 47 nella graduatoria 2006/2007, passa al posto 46. Magro bilancio. Tra i primi dieci Paesi del mondo ci sono, in questo caso, la Germania ed il Regno Unito. Tra i primi 25 Francia, Belgio, Irlanda, Canada ed Israele. Nei primi trenta anche la Spagna, il Cile e la Tunisia.
I nostri autori concludono la loro ricerca affermando che l’integrazione europea è stata un vettore, un facilitatore della globalizzazione, negli anni della Guerra Fredda e della riconciliazione del mondo con la civiltà degli scambi, dopo il collasso della Seconda guerra mondiale, generato dalle tensioni alimentate dalla grande depressione e dalle paure autarchiche che l’avevano generata. Oggi, al contrario, il mercato unico, il patto di stabilità e crescita, la strategia di Lisbona hanno progressivamente svuotato l’efficacia di singole politiche nazionali come motori di moltiplicazione del benessere ad uso esclusivo di ciascun mercato domestico. Anche la creazione dell’euro ha avuto un ruolo in questa direzione, svuotando la possibilità di manovrare la politica monetaria ed il cambio per favorire le proprie imprese nazionali. Gli autori non dicono esplicitamente che il ritardo italiano, accusato nelle misure da essi elaborate, sia l’effetto di un eccesso di concentrazione sugli interessi dei gruppi domestici di pressione e di una incapacità di integrarsi davvero con il processo di unificazione del mercato globale, recependo gli effetti positive, in termini di innovazione e di incremento della capacità di produrre che quella unificazione comporterebbe. Ma essi affermano anche che “a Europe that could move only in lock-step would be a Europe unlikely to progress at all. Yet in many ways, Europe is still less than the sum of its parts”. Ed una di quelle parti che generano effetti negativi sembra possa essere, purtroppo, proprio il nostro Paese.
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